Nella Sicilia arcaica dai molteplici volti vi è una profonda vocazione, inconfessata, un’anima che spesso si converte in “faticosa” e disperata memoria. Una memoria che ama celarsi in storie perdute e ritrovate, nel tempo formulate come scongiura oltre la quotidianità.
La crudezza come marchio, segno distintivo di molteplici identità, va riconosciuta nella poesia di Pierpaolo Pasolini che, pur non essendo conterraneo, affermava:
Se l’uomo fosse un Monotipo nella Subtopia di un mondo senza più capitali linguistiche,
e disparisse quindi la parola da ogni sua via dell’udire e del dire,
lo stringerebbero mistici legami ancora alle cose, e ciò che le cose sono,
non fissato più nel tristi contesti, sarebbe sempre nuovo,
colmo di gaudiose verità pragmatiche.

Opera di Gaetano D’Aquino
Entrare nel cuore della memoria cruda, negandoci ogni scappatoia: questa dovrebbe essere una delle nostre sorti. Perché riconosciuti figli e uditori; spettatori di narrazioni. La parola si fa rivelatrice di verità delle cose e di ciò che sono le cose.
Le narrazioni popolari, soprattutto in Sicilia, offrono a piene mani all’uditore non un’architettura che ne organizzi le esperienze ma un disorganizzato e saggio sapere del come funzionano le cose; nel cosmo del ceramista, per citare un esempio cruciale: si narra che un giorno di un tempo imprecisato, il diavolo si trovò senza più nulla da fare all’inferno e così, annoiato, decise di venire sulla terra. Emerso in superficie dalle crepe dell’argillosa terra e assunte le fattezze dell’uomo comune, s’incamminò alla ricerca di impiego che spendesse il suo tempo.
Con questa introduzione – narratio argentea silentium vero aureum est – il racconto si fa mito

Opera di Antonio Sciacca
Il diavolo nel suo girovagare venne a trovarsi davanti ad un panificio ed entrò; dopo aver dato colpo d’occhio al luogo, rivolse al capo fornaio la sua richiesta di lavoro. Il buon uomo lavoratore, dispiaciuto, rispose di no per i non pochi dubbi che nutriva sul richiedente.
Il satanasso era comunque deciso a non arrendersi così presto e continuò la sua instancabile ricerca per tutto il giorno, offrendo i suoi servigi a qualunque lavoratore incontrasse sul suo fuorviante cammino: falegnami, fabbri, pastori, maniscalchi, cordai.. persino al becchino, ma per sua ironica sfortuna l’esito fu sempre lo stesso.
Rassegnato, il demone ripensò di tornare al caldo della sua dimora quando, vedendo in lontananza un uomo che asciugava delle brocche di creta sotto i raggi del sole, sentì rinascere la speranza nel suo petto.
Il diavolo fu felice nel constatare che nessuno aiutasse quell’uomo nel suo mestiere e così gli si avvicinò chiedendogli se avesse bisogno di un’apprendista. La risposta del vasaio fu positiva, così il nuovo garzone di bottega ed il mastro si armarono di ceste di vimini e zappette e si diressero alla cava dalla quale ricavare la creta. Scavarono grosse buche di oltre quattro metri per estrarre la creta ancora sotto forma di pietre. Una volta raggiunta la quantità necessaria, la caricarono sui carretti trainati da muli affinché fosse portata in bottega. Il Satanasso e il Vasaio scaricarono e stesero la Creta all’aria aperta per farla asciugare a dovere. Dopo alcuni giorni, la creta fu asciutta e i due artigiani dovevano ora liberarla dalle impurità; a questo scopo usavano delle mazze di legno con le quali frantumare le pietre fino a ridurle in sabbia. In questo modo era più facile trovare ed eliminare eventuali corpi estranei.

Opera di Marcello Dicembre
La sabbia pulita veniva poi riposta dentro una vasca all’interno della bottegha ed il vasaio vi aggiunse acqua e sale secondo le quantità che riteneva opportune, mentre il maligno osservava con attenzione. Nei giorni che seguirono, il mastro vasaio osservò l’amalgama fin quando decise che il periodo d’ammollo era stato sufficiente. Il fango ottenuto fu quindi steso in un angolo della putia. L’artigiano si tolse le scarpe e calzoni dicendo di fare lo stesso al suo apprendista per calpestare la melma; questa era una delle fasi più dure del mestiere: era infatti necessario pigiare con un ritmo veloce e continuo per molte ore.
Il diavolo saltava e schiacciava senza sosta, il suo respiro si faceva sempre più affannato e più di una volta temette paradossalmente che il cuore gli uscisse dal petto. Finita quella danza, sfinito avrebbe deciso di piangere se non avessa già perso ogni liquido del suo corpo sotto forma di sudore. Dopo tanta fatica, il fango si era trasformato in argilla naturale pronta per esser plasmata dal mastro vasaio. L’uomo sedette quindi al tornio e cominciò a modellare le brocche, una dopo l’altra man mano che il demone gli passava i panetti d’argilla in dialetto chiamati “badduna”.
Quando l’artigiano raggiunse il quantitativo voluto, poco più dei mille manufatti, passò alla fase più incisiva della sua opera: la cottura. Questo avveniva dentro una fornace a legna in cui le fiamme ardevano anche per più di trenta ore. La fornace fu accesa e da quel momento in poi il maestro e il diavolo non poterono più allontanarsi per non perder d’occhio la cottura. Sul finire, col povero diavolo ormai debolissimo, il quattararo – come si dice in dialetto – smise di alimentare il fuoco e solo dopo ventiquattrore di raffreddamento aprì la fornace.
I compari si guardarono sorridenti alla vista dei loro risultati eccellenti. Il demone a conti fatti credeva di potersi finalmente concedere una meritata sosta ma i conti non riuscirono. Il mastro ghignando spiegò all’apparente ragazzo come il mestiere non finisse mai. A quelle parole di scherno per il demonio si annebbiò la vista e, montato su tutte le furie, mondò il mastro vasaio all’inferno maledicendolo per poi svanire in un baleno.

Vasai a Lentini
Il dionisiaco e satirico soggetto più crudele al mondo fece ritorno al caldo inferno giurandosi che se un giorno fosse tornato sulla terra, mai più si sarebbe avvicinato a quel mastro che fa della sua tenacia un gran segreto.
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