
Orici
Oggi su Palmira dominano i funebri colori di uomini incappucciati che compiono indicibili efferatezze, ma fino a pochi anni fa questa località a duecento chilometri a est di Damasco era méta agognata di turisti scopertisi improvvisamente appassionati di archeologia. Retour l’ha visitata nell’ambito di un viaggio sperimentale di turismo responsabile in Siria.Ecco il racconto in presa diretta, scritto nel 2010 ma – ci sembra – significativo della straordinaria bellezza di un paese e di un popolo dimenticati dal mondo.
«Fa un po’ impressione leggere i cartelli stradali che puntano verso Baghdad, quasi fosse una destinazione “normale”; del resto, recandosi nell’antica Tadmor, soprattutto dopo le piacevolezze damascene, si avverte la netta sensazione di raggiungere una frontiera – beninteso, a patto di riuscire ad ignorare le file di torpedoni che in alta stagione ingolfano il sito e la città adiacente.
Giunti al sito di Palmira, ci si inerpica sulla collina che domina le rovine disseminate su 400 ettari e, dal castello diroccato di Qa’lat ibn Maan, si ammira la declinante luce del sole al tramonto adagiarsi su colonnati, templi, statue, ricoprendo i singoli elementi del sito di un colore ocra che li uniforma fino a renderli indistinguibili.
Il signor Nour, che lavora come autista per l’hotel «Al Nakheel», organizza, come tanti altri, una visita all’accampamento beduino che si trova nel deserto, a pochi chilometri dal sito archeologico. È dura la vita di questa gente, nomadi ormai sedentarizzati, esposti a condizioni climatiche estreme: d’inverno in questa zona cadono fino a 50 centimetri di neve, e le autorità devono inviare i rifornimenti con gli elicotteri. L’anno scorso il freddo è stato così intenso da provocare diverse morti per assideramento, soprattutto bambini. Invece l’estate, ma anche in primavera, il caldo è soffocante, appena mitigato dal vento che si alza la notte e dura fino alle prime ore della mattina seguente.

Palmira
Nell’area di Palmira, che conta 65.000 abitanti, vivono circa diecimila beduini, i cui figli frequentano le scuole pubbliche della città, che offrono loro una sistemazione in stile collegio, con vitto e alloggio per 5 giorni su 7: in questo modo, le nuove generazioni crescono distaccandosi gradualmente dalla cultura nomade (che peraltro sta già scomparendo di suo), attenuando gli effetti più nocivi di quel modo di vita. La cena sotto la tenda bedu è frugale ma buona, a base di yogurt, focaccia, riso, verdure; fuori, il gregge di pecore della famiglia che ci ospita si produce in un flebile belato. È notte fonda e il gruppetto di visitatori fa ritorno alle certo più confortevoli stanze d’albergo, in vista delle fatiche del giorno seguente: la visita dell’antica città fondata da Zenobia, regina ribelle che cercò di affrancarsi dal giogo degli imperialisti di allora, i Romani. I cui discendenti in bermuda e occhiali da sole colgono forse meglio di altri ciò che distingue i resti palmirensi da quelli dei Fori di Roma: si tratta del contorno, ovvero le sabbie che cingono d’assedio il sito fin quasi ad assorbirlo, ad integrarlo nel paesaggio desertico.
Ma c’è qualcos’altro che rende Palmira speciale: sono i suoi odierni abitanti, che attraversano incessantemente le vie intersecanti le colonne a bordo di motociclette cariche di merci, alcune destinate a compratori locali, altre invece squadernate davanti a turisti boccheggianti. Oppure guidano taxi e minibus, scarrozzando i medesimi da un tempio all’altro, fino alle meravigliose tombe (di due tipi: la torre funeraria e l’ipogeo, dove sono ben conservati splendidi affreschi e sculture che adornano i sarcofagi). O ancora, come Tareq, sono guardiani degli orti che ancora sorgono a margine di Palmira, che poté prosperare appunto in una delle oasi più grandi del deserto siriano. Adesso, ovviamente, non è più così, ma l’orto del gentile Tareq è ben curato, e racchiude una notevole sorgente di acque lievemente solforose, in cui il guardiano invita a bagnarci, non senza il rituale bicchiere di tè bollente servito su una stuoia all’ombra di un secolare ulivo.
Ma il più straordinario dei palmirensi del XXI secolo è senz’altro Mohammed Mahmoud: baffoni e aria mite, è un formidabile ornitologo, divenuto esperto grazie alla sua passione e alla collaborazione con un naturalista italiano nell’ambito di un progetto FAO di conservazione.
È un venerdì, Mahmoud è a casa ma è subito pronto ad accompagnarci a visitare la riserva di Al-Talila, a 20 chilometri da Palmira. Qui, l’attenzione si concentra su alcuni impercettibili movimenti sullo sfondo grigiastro del terreno desertico: Mahmoud inforca rapidamente un paio di occhiali che recano ancora l’etichetta con la gradazione standard e, con l’ausilio di un buon binocolo, individua con sicurezza l’allodola del deserto e quella crestata, lo chiff-chaff, l’allodola di Temminck, la grande averla grigia e quella dal dorso rosso, l’usignolo di Upcher… Risulta difficile star dietro all’abilissimo Mahmoud, il quale ogni volta afferra la sua copia stropicciata della «Collins’ Bird Guide» e ci mostra soddisfatto la pagina corrispondente a quanto avvistato.
Nella riserva di Al-Talila ci sono oltre 500 gazzelle e 180 orici (nome scientifico: Oryx Leucoryx; nome locale: Maha), un tipo di antilope dal manto candido e dalle lunghe corna nere. Sembrava che questo splendido mammifero si fosse estinto; in effetti, secondo i beduini del deserto siriano, chiamato El-Badia, erano almeno 70 anni che non si vedeva un orice nei paraggi. Un altro intervento molto interessante riguarda l’osservazione di tre ibis (nome locale Nuq), catturati dallo staff della riserva, muniti di un sensore satellitare e liberati di nuovo: si è così potuto verificare la capacità di volo e la resistenza di questo volatile, in grado di raggiungere in sole tre ore l’Arabia Saudita, da lì lo Yemen (11 ore), poi l’Etiopia e il Sudan.
Sfortunatamente, il progetto è stato finanziato dalla FAO per cinque anni, poi i finanziamenti sono cessati, né lo stato ha previsto incentivi per il personale locale formatosi in questo arco di tempo affinché potesse continuare ad operare per la conservazione degli animali di El-Badia: originariamente il programma prevedeva la riproduzione di dieci orici per volta e la loro immissione nell’ambiente libero per estendere il ripopolamento dell’area. Per tenersi in allenamento il nostro amico ha allestito un rudimentale riparo per osservare gli uccelli da sotto un vagone abbandonato: al respingente posteriore ha appeso un sacco di juta in cui ha praticato due fori per gli occhi e, ad un paio di metri, ha scavato una piccola pozza con dell’acqua per attirare i suoi amati volatili.
Adesso, Mahmoud aspetta una nuova occasione per mettere a frutto le eccezionali competenze acquisite in quella che sostiene esser stata una delle più belle esperienze fatte nella sua vita ».
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