Dai tempi della rivoluzione khomeinista, molta acqua è passata sotto i ponti dell’Iran, come lo storico Si-o-Seh Pol, le cui trentatré arcate illuminate si riflettono sul fiume Zayandehrud, che bagna la celebre città di Isfahan. L’accordo sul nucleare iraniano, annunciato il 14 luglio di quest’anno, sembra poi aver definitivamente “sdoganato” – com’è d’uopo scrivere in questi casi – il regime degli Ayatollah, peraltro andato modificandosi in profondità nel corso dei 36 anni trascorsi dalla fuga dello scià di Persia.
Tuttavia, l’Iran resta un paese dove la parte più avanzata della società non trova rappresentanza politica: i diritti civili subiscono severe limitazioni, come ben sanno donne e omosessuali, la pena di morte è applicata in modo diffuso, all’estero il governo sostiene un regime criminale come quello del siriano Bashar al-Assad. Laddove emergono, le istanze di cambiamento sono ferocemente represse: do you remember Neda e la “rivoluzione verde” del 2009?
Anche il cinema è colpito: gli intellettuali non possono esprimersi liberamente ma devono passare sotto il giogo della censura di Stato. Il regista Jafar Panahi è tra questi: già aiuto regista del grande Abbas Kiarostami, le sue opere – da “Il palloncino bianco” a “Off-side” – hanno vinto numerosi riconoscimenti internazionali pur tra mille difficoltà e divieti imposti dalle autorità. Dopo essere stato arrestato due volte, nel 2010 viene condannato a non poter fare film, scrivere sceneggiature, rilasciare interviste ed uscire dal Paese. Ciò nonostante, Panahi ha continuato a girare, nelle condizioni in cui gli è stato possibile. “Taxi Teheran”, presentato quest’anno al Festival di Berlino, è girato con una piccola telecamera, forse un telefonino, collocato sul cruscotto di un automobile guidata dallo stesso Panahi, il quale percorre le strade della capitale iraniana raccogliendo passeggeri di cui ascolta le storie: i personaggi che si alternano sui sedili dei passeggeri del regista-tassista sono molto variegati ed offrono un panorama sorprendente della società iraniana del ventunesimo secolo.

La locandina del film – www.corrierecinema-tv.it-
Una coppia ferma l’auto perché appena coinvolta in un incidente in motocicletta; il marito ha avuto la peggio e viene caricato sanguinante sul taxi. La moglie ne raccoglie le presunte ultime volontà attraverso lo smartphone di Panahi, il quale in seguito riceve la chiamata della stessa moglie che, malgrado il consorte sia fuori pericolo, ha pensato bene di entrare comunque in possesso della registrazione – “Non si sa mai…”. Omid, invece, è un accanito cinefilo, ha studiato cinema alla Scuola d’arte di Tehran ed ora gestisce una piccola attività di noleggio DVD. Riconosce immediatamente Panahi e se ne dichiara ammiratore da sempre. Dopo due buffe signore salite a bordo con una vasca di pesci rossi, la parte centrale del film ruota attorno a figure familiari per Panahi: Ghondeh, un’avvocata che allude alle vicende processuali del regista, e soprattutto la nipote di lui, Hana, che sale a bordo per incontrare lo zio e, da studentessa modello, enuncia le regole sulla censura preventiva poste dal Ministero della cultura e dell’orientamento islamico…
Uscito in Italia a fine agosto ad anticipare la riapertura della stagione cinematografica, “Taxi Teheran” ha ricevuto dalla giuria del Festival di Berlino 2015, presieduta dal regista americano Darren Aronofsky, il prestigioso “Orso d’oro”, consegnato alla piccola Hana Saeidi, nipote del cineasta e interprete del film, con questa motivazione: «Le restrizioni sono spesso fonte di ispirazione per un autore poiché gli permettono di superare se stesso. A volte possono essere talmente soffocanti da distruggere un progetto e spesso annientano l’anima dell’artista ma, invece di lasciarsi distruggere la mente e lo spirito, invece di lasciarsi pervadere dalla collera e dalla frustrazione, Jafar Panahi ha scritto una lettera d’amore al cinema. Il suo film è colmo d’amore per la sua arte, la sua comunità, il suo paese e il suo pubblico».
Del resto, come evidenziato anche dalla recente mostra “Unedited History. Iran 1960-2014”, la cultura visuale iraniana dagli anni Sessanta ad oggi si è manifestata sotto forme molteplici ma tutte degne di attenzione, con una grande varietà di opere che spaziano dai dipinti e dalle fotografie alle installazioni, alla grafica e a documenti quali materiale d’archivio, giornali, manifesti, video, attraversando i cambiamenti dell’ultimo mezzo secolo: l’epoca dello Scià, la rivoluzione khomeinista e la nascita della Repubblica islamica, la guerra contro l’Iraq, il ruolo di Tehran come attore regionale.
È quindi un vero peccato che spesso gli iraniani, al pari del celebre regista, non possano esprimersi come desiderano a causa della dinamica repressiva tra arte, consenso, morale religiosa che vige in Iran. Eppure, com’è noto, questo è un popolo che ama le manifestazioni artistiche e la bellezza: tra le tante testimonianze raccolte durante un viaggio in terra persiana, ci piace ricordare la visita di Isfahan, dove, nei pressi del bellissimo ponte di Khaju, si danno appuntamento alcuni strepitosi cantori popolari locali: ascoltarli è una tradizione antica quanto tuttora viva. Sotto le arcate del ponte, illuminate da una fioca luce giallognola, si assiepano decine di persone per ascoltare romanze e canzoni di grande lirismo e di alto livello musicale: c’è un signore più anziano che introduce e lega insieme i vari pezzi. Concludono due ragazzi molto giovani e azzimati, con un paio di romanze a doppia voce. Piano piano una vera e propria folla si assiepa lungo le volte a botte in mattoni di una delle arcate centrali; molti riprendono i cantori con videofonini o camere a mano. C’è grande entusiasmo per i pezzi di bravura cui si assiste.
A Shiraz, nei pressi dei mausolei dei celebri poeti persiani Sa’di e Hafez, vi è un vasto giardino, la cui bella chaykhuneh (Casa del té) è stata ora chiusa, il che – dopo analoghi episodi in altre città – ci fa sospettare la regia repressiva del regime, che ove possibile mira a sottrarre soprattutto ai giovani spazi vitali di aggregazione. Poco oltre, c’è la sede dello «Hafez Study Center», dove assistiamo alle prove di una rappresentazione teatrale avente ad oggetto le poesie del vate e ci fermiamo a parlare con alcuni giovani entusiasti di teatro.

La casa del the – tedchang.free.fr
Insomma, durante il nostro viaggio in Iran abbiamo familiarizzato continuamente, soprattutto con i giovani iraniani, letteralmente affamati di novità e di notizie. Nell’autobus tra Isfahan e Shiraz, un ragazzo, con fidanzata al seguito, che studia legge in una città a metà strada sul nostro tragitto, ci fa molte domande sulla ormai obsoleta macchina fotografica digitale, vuole sapere quanto costa; lui come quasi tutti vuole anche sapere come troviamo l’Iran, cosa ne pensiamo…
La nostra guida, Massud, chiacchiera con un altro ragazzo, dall’aspetto sportivo: anche lui studente all’università, ci racconta che gli atenei sono pieni di persone che riferiscono di ogni minimo sospetto di attività politica tra i giovani; quando ciò avviene, i “sospetti” vengono richiamati e, nei casi ritenuti più gravi, scatta l’espulsione. All’università è anche vietato avere rapporti tra maschi e femmine: naturalmente, il divieto viene ignorato, ma si corrono seri rischi. Inoltre, circola molta droga: oppio, eroina, hashish, sintetiche, di nuova generazione – l’ultima è chiamata “vetro”. E pensare che il nonno di Massud fino a qualche decina di anni fa ricorreva apertamente a terapie palliative e curative a base di oppiacei, per una serie molto ampia di patologie: nulla di nuovo sotto il sole, è cambiato l’uso che si fa di un prodotto tipico dell’Asia centrale!
A Yazd, affascinante città dai colori d’argilla al margine di due deserti, il Dasht-e-Kavir e il Kavir-e-Lut, ceniamo nel cortile interno di uno degli hotel ubicati nelle splendide dimore tradizionali dell’aristocrazia pre-Khomeini in compagnia di alcuni giovani che – è il compleanno di uno dei due – fumano qalyan (il narghilé locale) e bevono di nascosto birra e whisky. Ci offrono di dividere con loro questi beni peccaminosi, cosa molto rischiosa visto l’episodio che loro stessi ci raccontano: un’ospite dell’hotel si era lamentata perché alcuni giovani, di entrambi i sessi, fumavano e scherzavano tra loro, prendendo il tè sui tavoli-divano disposti nel giardino dell’hotel. Apostrofandoli come “pervertiti”, la signora era riuscita a far intervenire un poliziotto, che aveva preso nota della segnalazione, anche se nel frattempo i ragazzi si erano spostati e separati dalle ragazze. Nulla di grave alla fine, ma è comunque un pesante condizionamento. Tuttavia, le persone sembrano comportarsi con un atteggiamento di sfida, conducendo la propria esistenza con una spensieratezza apparentemente incompatibile con le regole stabilite. C’è anche molta insofferenza, che talvolta esplode in liti e aggressività verso i rappresentanti del potere, fossero anche semplici bigliettai della metro.
Infine, a Kashan, in uno dei mille empori lungo la strada, dove entriamo a comprare un po’ degli squisiti pistacchi di qui, il giovane commesso ci guarda con i suoi occhi chiari e tagliati, da centroasiatico, e sorridendo mi fa, con una voce un po’ in falsetto: “Kabul, Kabul”, indicando sé stesso. Poi dice altre parole, nomina alcune città dell’Afghanistan, taliban: insomma, ci tiene a farci sapere che è afghano e che è fuggito dal suo Paese per via della guerra. Non è certo il solo: l’Iran ospita due milioni di rifugiati, ai suoi confini meridionali sorgono immense tendopoli di gente che aspetta di potersene andare altrove o di tornare a casa – ma per questo ci vorrebbe una vera pace. È ovvio che siano malvisti: tempo fa, sono bastati un paio di episodi di criminalità in cui erano coinvolti profughi per scatenare un’ondata di odio nei confronti di tutti gli afghani, come purtroppo accade anche nella “civile Europa”…
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