Tutto è relativo, l’oggettività non esiste, ognuno di noi si esprime inevitabilmente in base al proprio bagaglio culturale e sociale, è tutto un punto di vista.
Ed è questo che si impara viaggiando sostenibilmente e responsabilmente, ogni popolazione incontrata ha delle peculiarità a sé stanti e per quanto ci possiamo sforzare, è difficile entrare nel loro punto di vista. Più ci si allontana a livello spaziale, più entrare nell’ottica di un determinato stile di vita, di un’abitudine, di un gusto alimentare, diventa complesso.
Ho imparato ad apprezzare tutto questo tramite un piccolo gesto, che anni fa una professoressa universitaria, fece con semplicità e disinvoltura. Ci mostrò questa mappa e ci chiese quale fosse la sua caratteristica.
Nessuno riuscì ad arrivare alla conclusione: era semplicemente un mappamondo visto da un altro punto di vista: quello australiano. Quel semplice gesto mi aprì la mente, quindi tutto quello che mi era stato detto sin dalle elementari, iniziava non a crollare, bensì a diventare una delle tante prospettive possibili. A questo si aggiunse la lettura di “Stranieri come noi“, di Vittorio Zucconi, un libro che, seppur destinato a un pubblico di piccoli lettori, mi fece recuperare quell’idea che un’infanzia in un paesino di cinquemila anime, lontano dalla multiculturalità dei grandi centri, non mi aveva mai concesso di plasmare. Così si aprì una piccola fessura verso il mondo, che man mano mi allargò la mente.
Scoprii che quando un bambino dal passeggino indica qualcosa con il dito, non dobbiamo vergognarcene, anzi, dovremmo esserne contenti, perché sta scoprendo qualcosa di nuovo. Forse a volte dovremmo essere proprio noi, a scrollarci di dosso i preconcetti e i pregiudizi e scivolare dagli schemi, per vedere le cose sotto un’altra luce. Soprattutto quando siamo in viaggio.
Sul libro si parla anche della relatività della mappa. Noi studiamo sulla carta dell’Italia sin da piccoli, ma non ci fermiamo mai a riflettere sul fatto che ad esempio gli alunni giapponesi hanno sulle mura della loro aula, la carta del Giappone, e che per loro l’Europa è solo un posto come tanti, verso Ovest, che non può avere la stessa centralità che noi gli attribuiamo. È un concetto semplice, ma il più delle volte ci sfugge.
Voglio dire che più si conosce il mondo,
più si va fuori dal paese e dal quartiere dove siamo nati,
più ci si accorge che i cinque miliardi e mezzo di esseri umani
che popolano la Terra oggi sono tutti «stranieri» agli occhi degli altri, noi compresi.
E se tutti siamo stranieri, nessuno è straniero, vi pare?
(Zucconi V., Stranieri come noi)
La cartografia moderna ci insegna che le mappe non sono mai oggettive, ognuna è modellata a seconda del suo scopo. E così, se a livello politico si vuole imporre un nome ad un luogo piuttosto che un altro, è così che si sceglie di etichettarlo sulla carta. Allo stesso modo, si fanno comparire determinate località o attrazioni per indirizzare il turista in quei luoghi, a discapito di altri… Forse anche per questo, la classica immagine del viaggiatore con la mappa in mano (o, ai tempi odierni, con il GPS…) dovrebbe essere rivoluzionata, nel caso di viaggi responsabili e/o fuori dagli schemi.
Mi sono imbattuta giorni fa in un articolo che esprimeva un’idea sensazionale: quella delle mappe create a partire dalle indicazioni fornite dalla popolazione locale. Il risultato è ben diverso da ciò a cui siamo abituati. L’ideatore è Archie Archambault, che da qualche anno si è voluto distaccare dall’utilizzo di Google Maps per raggiungere una località e si è sforzato di trovare un metodo alternativo, più vicino alla concezione locale, per partire da un determinato punto e giungere ad un altro. Secondo lui, siamo dei finti avventurosi, infatti quando ci imbattiamo in una nuova località, abbiamo un immenso database a supportarci sui nostri smartphone, mentre un tempo ci dovevamo fidare dei consigli di un portiere d’albergo. Il suo obiettivo è quello di restituirci quell’alone di mistero che dovrebbe accompagnarci nella scoperta di un luogo. Laureatosi in filosofia, si trasferì a Portland, e iniziò a conoscere la città in modo alternativo. Disegnò un cerchio su un foglio, lo divise in quadranti, per distinguerne le aree a seconda dei punti cardinali ed esplorò il luogo utilizzando i mezzi pubblici e chiedendo agli abitanti informazioni al riguardo. Questi ultimi, facevano naturalmente riferimento ai punti più attraversati dalla gente del posto. Fu il suo modo di sperimentare quanto la sua prima percezione combaciasse con la loro.
Da allora, ne ha fatta di strada: il meccanismo rimane lo stesso, si parte dal cerchio, per sviluppare nuove mappe sullo schema della prima. Tutte le informazioni sulla storia di Archie e il suo bellissimo progetto, si trovano su questo sito.
Tag:cartografia, mappe, viaggi sostenibili