
Grissini torinesi
Ci sono cibi che nascono per caso (o per errore); e che, altrettanto per caso, diventano icona di un territorio, sopravvivendo ai secoli. I grissini si trovano oggi sulle tavole imbandite dei ristoranti di tutta Italia, sigillati in pacchetti infilati dentro il cestino del pane, ma sono il simbolo della gastronomia torinese.
Nascono per via di un esperimento: siamo nel 1688 e c’è un erede al trono di Casa Savoia per il quale, fin da bambino, sedersi a tavola è un incubo, un incubo infestato di gastroenteriti. Vittorio Amedeo II soffriva di intolleranza al lievito ma, in un’epoca in cui i pasti regolari e bilanciati erano privilegio di pochi, questo disturbo era difficile da diagnosticare; finché il medico Teobaldo Pecchio tentò un esperimento, dando indicazioni al fornaio di corte per produrre un sostituto del pane che risultasse più digeribile.
Lo chiamarono grissino, che in piemontese suona ghérsin, come “piccola ghérsia“, dal nome di una forma di pane lunga e stretta, diffusa a quei tempi. O anche rubatà, che in dialetto significa “arrotolato”, indicando il procedimento di preparazione. Oggi il rubatà è in realtà una varietà di grissino, che si distingue dallo stirato, preparato allungando la pasta fra le mani. Comunque, tornando alle origini, la leggenda narra che il monarca fu talmente grato e affezionato a questa invenzione che tutt’oggi il suo fantasma si aggira per i corridoi della Reggia di Venaria con un grissino in mano.

Vittorio Amedeo II di Savoia (fonte: Wikicommons)
Ma Vittorio Amedeo II non fu l’unico estimatore di questo prodotto da forno: oltre a lui e al suo pronipote Carlo Felice (che aveva l’abitudine di sgranocchiarli durante gli spettacoli al Teatro Regio, come oggi si fa al cinema con i pop corn), fra i testimonial VIP dei grissini è annoverato nientemeno che Napoleone Bonaparte. L’imperatore francese fece portare a Parigi i migliori fornai torinesi, affinché insegnassero ai locali il segreto dei loro petits bâtons. Ma invano: nonostante la forte somiglianza fra le due città, nella capitale francese mancava qualcosa (forse l’aria, forse l’acqua giusta) per far sì che il risultato finale fosse lo stesso di quel che si poteva gustare nel capoluogo sabaudo.
Se si fosse arreso, non sarebbe stato il Napoleone che tutti conosciamo: pertanto, Bonaparte istituì addirittura un servizio di posta celere, per far ricoprire nel minor tempo possibile gli 800 km che separano Torino da Parigi e farsi consegnare i suoi adorati grissini direttamente in tavola, riuscendo così a conquistare anche la sua seconda moglie, Maria Luisa d’Austria, che li prediligeva spezzettati dentro il brodo.

L’Obelisco di Piazza Savoia, Torino
Non sappiamo cosa si nasconda nell’aria di Torino che riesca a rendere i grissini così unici, tanto da essere irriproducibili altrove. Sappiamo però dove si nascondono nel capoluogo piemontese: in Piazza Savoia, nel Quadrilatero Romano (il cuore della vecchia Torino), si erge un obelisco, piuttosto controverso quando fu eretto nel 1852, poiché celebrava le Leggi Siccardi, con cui si abolirono i privilegi ecclesiastici.
Ma ora questo pezzo di storia non ci interessa. Ci interessa invece sapere che, quando fu posta la prima pietra del monumento, vennero scelti alcuni oggetti da sotterrare sotto di essa, che fossero emblematici del momento storico e sociale che si stava attraversando: oltre a una copia del giornale “La Gazzetta del Popolo”, a delle monete, a dei semi di riso e a una bottiglia di Barbera, si mise anche un fascio di grissini. E forse fu in quel momento che essi diventarono simbolo di Torino…
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