La parola chiave che ci dimentichiamo troppo spesso di sottolineare quando parliamo o scriviamo di quel “turismo altro” di cui vogliamo farci portavoce (ovvero il turismo lento, responsabile, sostenibile, green friendly e via discorrendo) è il vocabolo “paesaggio”.
Il paesaggio, infatti, non si identifica strettamente con l’ambiente e nemmeno si può considerare esclusivamente come quella parte di territorio dove sussiste un patrimonio edilizio e urbanistico storicizzato. Il paesaggio è formato in effetti da un connubio inestricabile fra l’opera della Natura e l’intervento dell’Uomo. Quindi, si evince in maniera solo apparentemente ovvia che il paesaggio è doppiamente importante, tanto sotto gli aspetti naturalistici quanto culturali. Potremmo anche sbilanciarci ad affermare che per la sua intrinseca, duplice origine, il paesaggio sia simultaneamente il più importante bene ambientale e il più prezioso bene culturale.
L’Italia, per secoli, è stata ammirata più di ogni altra nazione dell’Occidente proprio per il suo ameno ed eterogeneo paesaggio. Tutti ci ricordiamo le definizioni lette sui libri di scuola, coniate da grandi poeti e letterati. A Dante e Petrarca spetta la definizione che dà il titolo a quest’articolo: «Il bel paese ch’Appennino parte e ‘l mar circonda e l’Alpe» (dal Canzoniere di Francesco Petrarca). Ma sappiamo anche che generazioni di viaggiatori stranieri, da Michel de Montaigne a Goethe, da Byron a Stendhal, da James Joyce a Thomas Mann, hanno viaggiato in Italia inseguendo il mito del “Giardino d’Europa”, della “Terra dove fioriscono i limoni”, di “un tesoro immenso messo insieme”.
Quanto più ci apparirà concreta e tangibile questa nozione di paesaggio italiano come unicum invidiato in passato da tutti gli altri popoli europei (e non solo), tanto più ci renderemo conto che esiste un modo per conoscere più a fondo la sua bellezza, fino a poter risalire al suo aspetto pre-industriale, comprendendone così veramente a fondo le peculiarità e l’unicità, quei valori che per la nostra filosofia intendiamo testimoniare e valorizzare.
Quale miglior metodo, dunque, se non quello di evocare il rapporto stretto, il legame di profondo amore nutrito dagli artisti –in particolare i pittori ma solo per ragioni pratiche – verso il paesaggio italiano ? Il tema è ricco di esempi illustri: il primo magniloquente documento che mi sovviene è il ciclo di affreschi delle Storie di San Francesco, dipinte da Giotto nella Basilica di Assisi oltre 710 anni ors ono. Stupenda è la preminenza del paesaggio in alcune scene, come quella in cui Francesco fa dono del suo mantello al povero. Per non parlare poi dei paesaggi di Assisi, Arezzo e del monte della Verna, che apportarono un’autentica, indicibile rivoluzione nel modo di concepire la veduta pittorica.
A qualche anno più tardi risale il salone del Palazzo Pubblico di Siena, dove si alternano due grandi scene di paesaggio, una in ambientazione urbana e l’altra in un contesto rurale del contado senese (sono le Allegorie del Buono e del Cattivo Governo affrescate da Ambrogio Lorenzetti).
Ma procedendo anche solo per sommi capi e in ordine sparso, non si potrà certo sorvolare sulla Pala di Pesaro di Giovanni Bellini, prima opera d’arte in assoluto dove addirittura si incornicia, come un quadro dentro al quadro, il promontorio su cui sorgono il borgo e, alla sommità, la Rocca di Gradara (quella, per inciso, dell’amore galeotto tra Paolo e Francesca).
E come dimenticare i maniacali studi di Leonardo sulle gole della Valdarno, le vedute a volo d’uccello del Montefeltro che Piero della Francesca inserisce come sfondo ai ritratti di Federico duca di Urbino e sua moglie Battista Sforza, i dolci panorami collinari umbri raffigurati da Perugino e Pinturicchio e il Lago Trasimeno immortalato da Raffaello nella Madonna del prato, i canali e le calli veneziane viste con la lente d’ingrandimento da Carpaccio?
Perfino Andrea Mantegna, «l’olimpico, algido, Mantegna, ha reso omaggio ai suoi paesi. Sono i laghi di Mantova, descritti sullo sfondo della Morte della Vergine» (citando Antonio Paolucci, oggi direttore dei Musei Vaticani, da “Il Paesaggio come ritratto dell’Italia antica”, Touring Editore, 2000). Quando poi si avanza dall’età del Rinascimento e si travalica il Seicento, ecco allora come la storia di questo sodalizio tra arte e paesaggio non viene più a comporsi di episodi sporadici, anche se di superba qualità (tanto per menzionarne un altro: La tempesta di Giorgione), ma si fa quotidiana, diventa implicita e sottintesa, è composta della materia stessa di cui sono fatti il sentimento e la sensibilità artistica.
La bellezza del paesaggio permea da quel momento in avanti l’estetica di ogni corrente artistica e l’immaginario collettivo, tanto che il “quadro di paesaggio” diventa un genere a sé stante e, peraltro, quello più commercializzato. E si sa, il mercato fa la moda e la moda del “pittoresco” paesaggio italiano, comprato durante i viaggi turistici di allora, crescerà e perdurerà senza battute d’arresto (superando pure l’ostacolo rappresentato dall’avvento della fotografia), fino alla Prima Guerra Mondiale. Solo un secolo fa.
Quando ancora i turisti non erano Instagramers, ma viaggiatori “slow” e “consapevoli”, acquistavano a man bassa disegni, acquerelli, incisioni e tele dipinte a olio di Lorrain, Van Bloemen, Canaletto, Bellotto, Hackert, Van Wittel, Pannini, Corot, Caffi, Gigante, Corrodi e Roesler Franz. Erano nomi di cui, almeno volta nella vita, pure le nostre nonne avevano sentito parlare con ammirazione.
Molti di questi, pur di origini straniere, dall’Italia non si sarebbero mai più allontanati, tanto che i loro figli avrebbero naturalizzato il proprio cognome. Ma questa storia, pur raccontata da tanti libri specialistici, non è ancora nota al grande pubblico, per cui diventa forse un mero esercizio di stile spigolare le biografie di questi artisti.
Un museo del paesaggio italiano, assurdamente, ancora non esiste né potrà mai esistere, forse, se continuiamo a farne beatamente scempio; intendo del paesaggio (a cosa servirebbe documentarlo iconograficamente, se non a mordersi più forte i gomiti poi ?). Ma intendo anche, in non pochi casi, dell’istituzione museo. Non mi si dica che questa storia non meriterebbe di essere tramandata in un museo, in quanto antiquata, sorpassata, polverosa e stantia come tutta la storia dell’arte prima delle avanguardie di inizio Novecento. Certo non dobbiamo neanche essere passatisti che vogliono mettere sotto teca il territorio come se il paesaggio fosse un reperto archeologico. Il paesaggio è vivo e in continua mutazione e l’arte, con la sua sensibilità, finirà sempre per rigenerare l’idillio con il paesaggio.
Cambiano infatti i mezzi espressivi ma non cambia il rapporto d’amore tra artisti e paesaggio italiano. Come ha sottolineato il sempre troppo compianto Federico Zeri, anche nel secondo dopoguerra si è assistito a un fenomeno che «è stato chiamato il neorealismo cinematografico», in cui il «repertorio di personaggi, inquadrature, scelte topografiche, spunti visivi è radicato in un terreno di vastissima cultura figurativa» (da “La percezione visiva dell’Italia e degli italiani”, Einaudi, 1989). Basti pensare ai paesaggi siciliani, ancora incontaminati, ripresi da Luchino Visconti per Il Gattopardo, che sembrano proprio una versione aggiornata di quei quadri ancora appesi in tante case, studi e palazzi anche solo “per bellezza”.
E a ben guardare, nulla cambia rispetto a quei pittori del plein air, tranne che per la moderna tecnica di ripresa dell’immagine, nello sguardo incantato che mostra un reporter di fama internazionale come Steve McCurry. Il grande fotografo statunitense, dopo aver esplorato gli angoli più remoti del mondo, ha realizzato una campagna fotografica dell’Umbria, facendo rivivere con i suoi scatti quella tradizione secolare di idilliaca italofilia da parte dei viaggiatori stranieri per cui, nonostante i difetti ancestrali dei suoi abitanti, il nostro paese, con i suoi spettacolari paesaggi, ha spinto uomini pur di grande lucidità e rigore intellettuale a dichiarazioni d’amore puerili e irrazionali: memorabile quella di Henryk Sienkiewicz, romanziere polacco autore del celebre Quo vadis: «Ogni uomo ha due patrie: una è la sua propria, l’altra è l’Italia».
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