È chiaro che c’è una componente turistica, promozionale, di marketing territoriale nei tanti Carnevali che si svolgono e festeggiano in questi giorni in Sardegna. Ci sono paesi come Mamoiada, un borgo dell’interno, che hanno investito risorse e soldi pubblici per questa tradizione. Hanno creato e aperto un museo dedicato alla maschere tradizionali – che però ospita manufatti anche di altri paesi del mondo – e il logo dei Mamuthones (la maschera tipica) si è disseminata nel territorio, a cominciare dalle etichette dei vini; un’associazione che ci sta tutta, dato che il Carnevale resta pur sempre un rito di origine dionisiaca.
Assistiamo a una degradazione di riti millenari, a una corruzione dello spirito originario, a un’invenzione della tradizione (nel senso illustrato dalla teoria degli storici Eric Hobsbawm e Terence Ranger in “The Invention of Tradition”, edito dalla Cambridge University Press nel 1983), a una pura e semplice mercificazione? Non credo. L’iniziativa imprenditoriale – per di più assai limitata in numeri e fatturati – è solo uno degli aspetti della riscoperta dei diversi carnevali della Barbagia, l’area culturale che si contraddistingue per unicità e originalità dei suoi riti, dove negli ultimi anni sempre più cittadini si sono messi a studiare seriamente per recuperare maschere e rituali che rischiavano di andare perduti. Alla fine il risultato è positivo: meno fatine, meno supereroi, meno Zorro e più pelle, più campanacci, più maschere in legno per le vie di questi piccoli paesi del centro Sardegna.
Oltre all’aspetto ludico e sociale – la riscoperta delle maschere millenarie ha fatto nascere tanti gruppi di appassionati che fanno rivivere la tradizione per pura passione – c’è da sottolineare la grande spinta alla ricerca storica e antropologica, per non disperdere la memoria dei carnevali. Uno tra i tanti esempi è un documentario recente, che va oltre la ricostruzione didascalica e propone una lettura originale del carnevale di Lula – altro piccolo paese ricco di tradizioni – e della maschera di Su Battileddu (riscoperta nel 2001). L’opera è della regista Cinzia Puggioni che, grazie al sostegno del musicista Paolo Fresu (non solo un grande jazzista ma un vero e proprio operatore culturale che si è sempre speso per la crescita culturale della Sardegna, anche con il festival Time in Jazz), ha realizzato ‘’Su Battileddu’’, dove il rito antico viene collegato al teatro della crudeltà di Antonin Artaud.
Per chi non conosce la materia, ricordo alcune delle maschere più significative del Carnevale barbaricino: i Mamuthones di Mamoiada che, ricoperti di pell,i si manifestano con una danza cadenzata al ritmo dei campanacci che portano sulle spalle (decine di chili, tanto per dare un’idea del peso della maschera) e ‘’giocano’’ con gli Issohadores (eleganti nel loro corpetto rosso), che avanzano armati di soha (una corda che funge da lazzo), per catturare anche gli spettatori di questo teatro animato e partecipato.
I Mamuthones sono le maschere più famose ma degne di nota sono anche Sos Thurpos (i ciechi) di Orotelli, S’Urthu (l’orso) di Fonni, Su Bundu di Orani (maschere di sughero colorato di rosso). Poi Sos Boes (i buoi con maschere di legno dalle corna allungate) e Sos Merdules (i contadini) di Ottana, che negli anni Settanta si presentavano con le tute blu operaie (il paese diventò un centro industriale con tante ciminiere di Stato, oggi quasi tutte spente). Illuminante esempio di come la tradizione è aperta al contagio della modernità.
L’elenco delle maschere e dei riti è lungo, chi vuole approfondire può visitare la pagina dedicata della Regione Sardegna.
Voglio concludere questa sintetica descrizione/riflessione con la citazione del Carnevale più trasgressivo della Barbagia: quello di Ovodda. Inizia quando gli altri hanno esaurito i festeggiamenti, vale a dire il Mercoledì delle Ceneri, al di fuori dal perimetro imposto dalla Chiesa cattolica. Il primo consiglio per chi vuole scoprire questo rito è di arrivare ad Ovodda con abiti vecchi e destinati ad essere buttati via, perché si viene subito accolti dagli Intintos (uomini con la faccia dipinta di nero), che non risparmiano il sughero bruciato per imbrattarvi faccia e abiti.
Insomma, lasciate a casa il costume da gran galà. Il personaggio principale è il fantoccio di Don Conte, che viene portato ‘’a spasso’’ per il paese e fatto bersaglio di ogni forma di disprezzo. Evidente il dna storico, con la jacquerie di contadini e pastori contro gli abusi della piccola nobiltà rurale. Processo del popolo che si materializza con Don Conte giustiziato, bruciato e gettato ancora in fiamme in una scarpata alla periferia del paese. Questo è il rito ma l’aspetto più entusiasmante di questo Mercoledì delle Ceneri resta l’allegria, l’anarchia, la trasgressione degli abitanti di Ovodda. Tanto per capirci: abitualmente chiudono tutti i bar e locali del paese, nonostante il grande afflusso di persone e turisti. Nell’ultimo Don Conte Day a cui ho partecipato, solo una piccola pizzeria al taglio ha aperto i battenti per sfamare e dissetare il popolo. Ma oltre all’assalto al trancio, non è mancata l’offerta di pane, formaggio, salsicce e, naturalmente, tanto vino. A Don Conte!
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