La corsa disperata di una giovane gazzella nel deserto, tra radi ciuffi d’erba. Spari secchi risuonano nell’aria, provenienti dal pick-up che la insegue. A bordo, uomini avvolti negli chech cercano di sfiancare la preda per catturarla più facilmente.
Siamo nello sconfinato nord maliano (anche se la location è in Mauritania), e l’incipit scelto dal regista Abderrhamane Sissako per “Timbuktu”, candidato agli Oscar 2015 come miglior film straniero, è una chiara metafora dell’innocenza destinata a cadere vittima di una caccia brutale.
È anche una raffigurazione di questo paese affascinante a cavallo tra il Sahara e l’argine del grande deserto, che sprigiona fascino per mille ragioni: il fiume Niger, su cui scivolano lente le pinasse, imbarcazioni spinte da motori o da lunghe pertiche a mano, sempre pericolosamente stracariche fino al limite della linea di galleggiamento; i pinnacoli della grande moschea di Djenné; i Tuareg, gli uomini blu, divisi tra fremiti di ribellione e istinto mercantile; gli straordinari musicisti eredi di Ali Farka Touré, in grado di andare alla conquista dell’industria discografica occidentale con il loro stile etichettato come «desert blues»…

I Dogon (www.terrediitinerari.it)
Ma la varietà etnica – dai Bambara ai Peul, dai Tuareg ai Songhaï – è forse il più grande motivo d’interesse per il Mali e i Dogon sono senz’altro al vertice di questo interesse, grazie alla divulgazione di matrice etnografica operata da schiere di antropologi, capitanati dal francese Marcel Griaule a partire dagli anni Trenta del XX secolo: la complessità della cosmogonia di questo popolo, i suoi riti, i costumi utilizzati nelle danze tradizionali, la struttura dei granai che richiama il corpo umano, il relativo isolamento e la conseguente conservazione della cultura originaria, la spettacolare falesia rocciosa in cui abitano – tutti questi elementi hanno contribuito alla fama tra i viaggiatori del popolo Dogon, stretto a ridosso della falesia di Bandiagara nonché tra il misterioso passato ancestrale e l’esigenza di vivere la modernità.
Il mistero che avvolge questa parte di mondo è ben reso dal regista di “Timbuktu”: non deve ingannare il lieve registro utilizzato da Sissako per descrivere gli integralisti, personaggi apparentemente buffi che si muovono goffamente, come nella sequenza in cui due militanti a bordo di una moto sgangherata sbucano da una stradina polverosa: mentre il passeggero scende e proclama divieti con un megafono, il motociclista cerca di riparare il mezzo già in panne. Oppure la registrazione, tentata all’interno di un’abitazione adibita a studio televisivo, dell’appello che, sotto la guida di un anziano che cerca di catechizzarlo, un giovane adepto dovrebbe rivolgere agli abitanti della città dopo aver abbandonato le sue precedenti aspirazioni da rapper a favore della scelta per la jihad…

Timbuktu (mysticpolitics.com)
Sotto la guida di miliziani venuti da fuori – parlano solo arabo e devono ricorrere ad interpreti per dare ordini – si cerca di iniettare dosi di settarismo religioso nella tollerante società maliana: qui, infatti, la popolazione abituata a parlare diverse lingue (bambara, peul, songhäi) mal digerisce le regole bislacche che vanno sotto il nome di sharia: le donne dovrebbero indossare calze e guanti anche se devono maneggiare il pesce, gli uomini non possono portare calzoni arrotolati, donne e uomini non possono fare musica insieme e tanto meno amarsi se non sono sposati. È infatti un tragico fatto realmente accaduto nella sperduta cittadina di Aguelhok ad aver ispirato il film di Sissako: la pubblica lapidazione di una coppia di amanti.
Qui la stolida goffaggine degli integralisti assume i contorni del crimine contro l’umanità, la stessa umanità incarnata dal saggio imam della moschea in bancò tipica della regione subsahariana, il quale scaccia i miliziani armati che pretendono di dettar legge anche nel luogo consacrato alla preghiera, alla meditazione e alla pace. La stessa umanità che induce un gruppo di giovani ad escogitare il modo di aggirare il folle divieto di giocare a calcio, inscenando in un campetto polveroso una sorta di replica di “Blow Up” di Antonioni: una partita senza pallone, ma non per questo meno avvincente.
Purtroppo, la pur breve impronta islamista sulla città di Timbouctou farà ancora vittime, falciando l’allevatore nomade Kidane, a sua volta carnefice del pescatore Amadou: lui che parla solo tamashek, la lingua dei tuareg, non convincerà della propria innocenza gli uomini in nero che si ergono a giudici finali di conflitti ancestrali in una terra arida e dura.

Jihadisti del Mali (www.formiche.net)
Ma chi sono questi “jihadisti” del Mali? Le prime notizie risalgono a 6-7 anni fa, quando alcuni occidentali furono rapiti a scopo di estorsione da una formazione che si faceva chiamare “al-Qaeda nel Maghreb islamico” (aQMi). Si tratta di un gruppo islamista attivo nel nord dell’Algeria e nelle zone desertiche tra la stessa Algeria, il Mali e la Mauritania, con base nella vasta regione maliana che si estende sulla riva sinistra del fiume Niger, tra Timbouctou e Kidal. Anche il celebre Festival au Désert, che si svolge dal 2001 tra le dune del villaggio tuareg di Essakane, a nord di Timbuctu, aveva per la prima volta registrato una scarsa partecipazione di pubblico a seguito di un allarme-sicurezza lanciato dalle ambasciate americana e inglese.
In tempi più recenti, il mai sopito ribellismo tuareg ha acquisito nuova forza con l’unione tattica tra il movimento per la liberazione dell’Azawad (il nord-est del Mali) e gruppi ben armati fuggiti dalla Libia dopo la caduta di Gheddafi, loro protettore. A loro volta, queste aggregazioni hanno fatto fronte comune con i miliziani di Ançar Dine (“Difesa dell’Islam”), che puntano a imporre la sharia in vaste aree lungo il confine algerino.

Colpo di Stato in Mali (ilfattoquotidiano.it)
La situazione è precipitata dopo il golpe militare del 22 marzo 2012, quando il governo del presidente maliano Amadou Toumani Toure è stato rovesciato da un gruppo di soldati dissidenti di stanza in una guarnigione a 15 km dalla capitale Bamako. Anche se il golpe si è subito rivelato un bluff (pochi giorni dopo la giunta militare, in evidente difficoltà, era già pronta a restituire il potere ai civili), i ribelli tuareg avevano trovato un alleato negli integralisti islamici e avevano dato il via alla propria personale offensiva, sostenuta da fortissime motivazioni sia etniche che religiose.
Il gruppo, infatti, rivendica il nord come territorio ancestrale e vuole saldare le regioni “liberate” con il sud dell’Algeria, obiettivo da sempre esplicito di aQMi. Il controllo di Timbouctou era l’ultimo obiettivo da conquistare: l’antica città, dichiarata patrimonio dell’umanità dall’Unesco, crea con Kidal e Gao il perimetro ideale di un’ipotetica patria tuareg nel deserto.
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