Una ciclovia naturale sulle sommità del nostro fiume maggiore, che unisce le Alpi con il mar Adriatico: è il viaggio fatto da 5 intrepidi cicloturisti per realizzare il progetto “VENTO. L’Italia in bicicletta lungo il fiume Po”. Seicentotrenta chilometri in bicicletta lungo il Po, per riscoprire territori abbandonati di rara bellezza e dimostrare che è un altro modo di viaggiare è possibile.
Loro sono Paolo, Diana, Alessandro, Chiara ed Ercole, ma al gruppo iniziale si uniranno tante persone incontrate durante il percorso: il loro viaggio lungo la dorsale cicloturistica, come l’hanno battezzata, punta i riflettori su un patrimonio esistente e sottovalutato. In otto giorni, questi cinque cicloturisti dimostrano che è possibile unire Venezia con Torino, le Alpi con il delta del Po, sull’Adriatico: un percorso che esiste già, ma che andrebbe attrezzato e valorizzato.
A capo della spedizione c’è Paolo Pileri, 46 enne ingegnere del Dastu, presso il Politecnico di Milano, specializzato in pianificazione territoriale, ideatore del viaggio e del progetto: con lui due dei suoi assistenti, una studentessa ed un ex manager che si occupa di marketing. I tre registi Paolo Casalis, Pino Pace e Stefano Scarafia li hanno seguiti lungo un percorso in 15 tappe, che ha toccato 30 città di 4 regioni, in 15 tappe. Ecco il trailer del documentario.
Daily Slow ha intervistato uno dei tre registi di Vento, Paolo Casalis.
Paolo, il vostro documentario, oltre a mostrare una prospettiva sul viaggio completamente diversa da quella canonica, mira a dimostrare che la “dorsale cicloturistica” di 630 chilometri che avete affrontato è fattibile, sia dal punto di vista economico che ambientale. Quali sono le principali difficoltà incontrate dai ciclisti nell’affrontare le 15 tappe del viaggio?
“L’organizzazione del viaggio è stata ad opera del Politecnico di Milano e dei ragazzi che partecipavano. Noi registi li abbiamo seguiti e spesso ci siamo anche persi: Alessandro, il nostro cartografo, ha dovuto tracciare un percorso che si snodava fra stradine sterrate neanche segnate sulle mappe, le difficoltà sono state molte e di vario genere”
Ce le racconti?
“Innanzitutto sono state di tipo fisico e logistico: sbarre che inibiscono il passaggio non solo alle auto ma anche alle bici, ponti che devi attraversare caricando la bici sulle spalle, treni inadeguati ai servizi. Inoltre, la gran parte delle zone che costeggiano il Po sono state abbandonate per i centri urbani: in molti tratti non c’è nessun servizio, nessuna segnaletica, nessun punto di ristoro. Pedalando sugli argini del fiume, che sono delle piste ciclabili naturali, per chilometri non si incontra nessuno: terre che una volta erano vive e piene di relazioni economico-sociali, ora del tutto disabitate”.
Nel documentario si parla appunto di intermodalità: qualcosa di fondamentale per un cicloturista, che affronta viaggi lunghi e che deve portare con sé tutta la sua attrezzatura. Ci spieghi cos’è?
“L’intermodalità è la capacità di potersi servire di diversi mezzi per arrivare alla propria meta: nel video si vedono Paolo e gli altri che devono salire separatamente su due treni diversi, perché nessuno è attrezzato per le bici. Se un ciclista affronta un viaggio di duecento, trecento chilometri ha bisogno di trovare un dato tipo di strutture, altrimenti non lo affronta per nulla e prende l’automobile”.
Lungo le molte tappe del percorso, il team di Vento ha riscoperto luoghi e città da prospettive diverse, che mettono il viaggiatore a stretto contatto con le attività umane, economiche, culturali dei territori attraversati e determinano un modo di viaggiare “relazionale”. Nel documentario si notano le conversazioni che la squadra intreccia con viaggiatori sulla via Francigena, con altri cicloturisti stranieri nel pavese o con i capitani delle poche barche rimaste. Pedalare è anche un modo per stringere contatti?
“Lo è, eccome. In luoghi del genere poi, dove davvero senti l’abbandono e la bellezza intrecciarsi insieme, lo è in modo particolare. Una volta questi posti erano animati da allevatori, agricoltori e pescatori: c’erano bar, strutture, servizi di ogni tipo. Adesso tutto è fermo, e le poche persone che incontri hanno voglia di parlare: si stringono rapporti fugaci ma intensi, si parla del pedalare, della gestione dell’ Italia. E’ un tipo di contatto diverso da quello che hai negli hotel o nei ristoranti dei centri urbani”.
Parlaci del Po dimenticato.
“Il Po è il leitmovit del viaggio: la squadra lo ha preso a Torino e lo ha lasciato al suo delta, per poi fare la tappa finale verso Venezia. Gli argini sono piste ciclabili naturali, il paesaggio cambia ma lui continua ad unire un’Italia dai mille campanili, oggi più che mai. Comunità divise con progetti frammentari che però vengono tenute insieme dal fiume: una realtà incredibile, da sfruttare subito. La pista c’è già, pensato cosa significherebbe per il turismo locale, riuscire ad attrezzare e rendere percorribile l’intera ciclovia: basterebbe poco”
La dorsale cicloturistica costerebbe appunto 80 milioni di euro: il costo di due chilometri di autostrade. Un progetto che significherebbe nuovi posti di lavoro, nuova prosperità per le zone attraversate e sicuramente un’importante azione di tutela dell’ambiente. Il vostro progetto, inoltre, ha compiuto una sorta di mappatura dei luoghi e delle mancanze riscontrate?
“Si i documenti sono a cura del Politecnico: ad ogni tappa si faceva una conferenza, illustrando mancanze e ostacoli, suggerendo idee e cercando anche di stringere intese. Hanno fatto un lavoro immenso: speriamo non vada perduto. L’obiettivo del team, infatti, era duplice: da un lato dimostrare che la pista c’è già che basterebbe poco per renderla agevole; dall’altro l’obietivo era anche quello di muovere qualcosa nelle amministrazioni locali”
Manca l’idea di rete.
“Assolutamente: ognuno fa la sua parte di pista ciclabile, dove va bene, senza trovare connessioni con le opere del Comune limitrofo. Cambiano le amministrazioni, cambiamo progetti e prospettive, non c’è nessuno spirito di condivisione dei problemi e soluzioni. E questo non vuol dire che i nostri incontri non siano stati stimolanti o non abbiano suscitato interesse”
La proposta fatta dal Politecnico per realizzare la dorsale Vento a che punto è?
“Il Politecnico si sta muovendo molto: personalmente so che il progetto è stato inserito fra i trenta da realizzare per l’Expo 2015. Speriamo bene: l’interesse suscitato sembra molto e so che Paolo e gli altri del Politecnico non si arrenderanno facilmente: anziché fare opere costose come la Tav, realizzare Vento significherebbe impiegare pochissime risorse ma in un modo molto fruttuoso, dando la possibilità a questi territorio di tornare a nuova vita”.
Come si può vedere il vostro documentario? Avete appuntamenti all’orizzonte?
“Stiamo organizzando le presentazioni e partecipando a festival: ci siamo auto prodotti e auto distribuiti. Vento, ad ogni modo, si può acquistare in dvd o vedere in streaming ad un costo irrisorio, che serve a ripagarci delle spese della realizzazione del documentario”.
Per vedere il documentario in streaming, o acquistarne il Dvd, clicca qui.
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