La storia dei cavalli selvaggi dell’Aveto affonda le radici nel territorio in cui essi vivono da sempre. La tradizione dell’allevamento equino si perde nella notte dei tempi, da quando i cavalli aiutavano l’uomo nel lavoro nei boschi, trascorrendo l’estate in montagna e l’inverno nelle stalle.
I cavalli hanno lavorato duro in queste valli. Non solo: tutta la storia dell’umanità è stata scritta in punta di zoccolo. Al cavallo dovrebbero andare la nostra gratitudine e il nostro rispetto, in memoria di una storia condivisa e lontana; ma spesso l’opportunità e l’interesse accorciano la memoria dell’uomo.
I nostri selvaggi, rimasti orfani del loro proprietario una ventina di anni fa, prima che questi potesse provvedere al loro rientro nella stalla, si sono trovati soli, in una zona di Appennino in cui gli inverni sono spesso molto rigidi. Sicuramente questo passaggio non è stato facile ma la natura ha insegnato loro a cavarsela egregiamente in qualunque situazione, ad adattarsi all’ambiente e a scegliere le zone più favorevoli in tutte le stagioni.
All’inizio erano una decina (alcuni di loro sono ancora in vita). Oggi sono circa quaranta. La selezione naturale, anche a causa della presenza di predatori naturali come i lupi, permette ai branchi di mantenere il numero di capi controllato.
Se la natura ha insegnato loro come fronteggiare gli eventi naturali, l’esperienza gli ha insegnato a diffidare dell’uomo, che ne mina la libertà e la sopravvivenza.
Nel 2009, infatti, due di loro sono stati fucilati mentre, ignari del pericolo, godevano del loro stato selvaggio brucando l’erba. Non prestavano attenzione a cosa stesse facendo quel bipede canuto e mingherlino, con quel pezzo di ferro in mano che all’improvviso ha emesso un rumore che ha riecheggiato in tutta la valle, seminando morte e paura.
Dopo questo grave fatto, in molti si sono schierati al fianco dei cavalli per garantirne la sopravvivenza, e molte parole sono state spese per offrire loro una vita rispettosa della loro natura. È stato redatto anche un protocollo d’intesa con la Regione e coinvolto il Ministero della Salute, ma il destino dei cavalli andava verso la cattura e l’adozione da parte di generosi e ignari benefattori, che prevedevano dunque di sradicarli dal loro territorio. Un cavallo nato e vissuto per anni allo stato selvaggio non è un peluche e non è adatto ad essere tenuto in giardino o chiuso in un box.
Ad aggravare la situazione ha contribuito anche la crisi economica, riducendo drasticamente la disponibilità di adozioni idonee a rapportarsi con cavalli indomiti e di indole selvaggia. Infine, la morte in cattività per infarti, coliche o avvelenamenti di alcuni cavalli dati in adozione, ha presto evidenziato che la strada intrapresa non era etologicamente compatibile, oltre ad essere anche molto onerosa.
Avendo difeso ostinatamente le sorti e la libertà di questi cavalli, da quel 4 ottobre 2009, e sostenendo strenuamente e con convinzione il valore rappresentato dal branco selvaggio, ho ritenuto di giocare un’ultima carta: quella dell’horsewatching, come risposta alle catture e all’eradicamento. Una parola “difficile”, che ha indotto l’ilarità di alcuni durante un convegno in cui ero relatrice sull’argomento. Certamente, dietro a quell’ilarità si nascondeva la convinzione che io fossi una visionaria. I fatti, dopo anni di intenso lavoro, di cui gli ultimi condivisi con Evelina Isola (naturalista e guida ambientale escursionistica), dimostrano che quella parola difficile nascondeva dei significati molto concreti, che stanno portando benefici in termini di visibilità e di indotto per il territorio.
Le nuove generazioni dei “nostri selvaggi” non hanno mai interagito direttamente con l’uomo e i loro schemi comportamentali e sociali sono gli stessi dei più famosi “selvaggi d’America”. Un patrimonio di tutti, di grande valore naturalistico, importante per chi studia il comportamento dei cavalli per migliorarne l’interazione con l’uomo. Ma si tratta di un patrimonio anche per l’ecosistema: i cavalli, infatti, con il loro pascolamento contribuiscono al mantenimento dei giusti equilibri e della biodiversità nei pascoli di montagna.
L’attenzione dell’Università di Genova, degli studiosi di comportamento equino e di etologia, dimostrano in maniera autorevole e imparziale che le convinzioni che hanno mosso la nostra ostinazione e il nostro progetto erano e sono solide e fondate. L’interessamento di Monty Roberts [addestratore di cavalli, diventato famoso per la sua autobiografia: “L’uomo che ascolta i cavalli”, n.d.r.] al nostro lavoro di tutela e valorizzazione dei selvaggi dell’Aveto, premia ulteriormente ogni sacrificio.
In questi anni abbiamo condiviso con i selvaggi le loro sorti, tristi e gioiose; abbiamo fatto l’impossibile per fare sì che il mondo sapesse della loro esistenza, affinché la fama sostenesse la sopravvivenza in natura, nella loro terra. Oggi, più che mai, l’identità del territorio in cui i cavalli selvaggi vivono interseca quella del branco selvaggio, emblema indiscusso di un’area di grande valore naturalistico, ricca di storia e di tradizioni, tutelata da un parco naturale impegnato nella valorizzazione delle biodiversità, di cui anche i nostri selvaggi fanno indiscutibilmente parte.
* Volete fare anche voi horsewatching? Scrivete a Paola Marinari o a Evelina Isola. E se volete fermarvi un po’, Slow Tourism vi consiglia una sua struttura (ovviamente ecosostenibile): l’agriturismo Monte Pu’, di Castiglione Chiavarese (GE)
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