Incontro con Paolo Nifosì, storico dell’arte
Scrive James Hillman: “L’anima del luogo deve essere scoperta allo stesso modo dell’anima di una persona. È possibile che non venga rivelata subito. La scoperta dell’anima, ed il suo diventare familiare, richiedono molto tempo e ripetuti incontri”. Aggirarsi per delle città iblee può divenire dunque un modo per scoprire l’anima di un territorio e, insieme ad essa, della sua gente.
Scoprire così quell’ intimo genius loci che Eugenio Turri [geografo, scrittore e viaggiatore, n.d.r.] sentiva palpitare in quello che lui definiva paesaggio in quanto “luogo, un tempo impregnato di usi e di memorie che esprimevano per intero la società. Spirito del luogo, genius loci, come una divinità impersonale che si limitava ad incarnare il senso del luogo”.
È quella divinità che si percepisce aggirandosi in alcune vie di cittadine iblee: Ragusa, Modica, Scicli per la provincia di Ragusa. Noto, Palazzolo Acreide, Francofonte, Siracusa per il Siracusano; e poi Acireale e Catania, città dei Monti Iblei che condividono, tra le altre caratteristiche, il gusto della decorazione dei palazzi signorili, grazie all’utilizzo di mascheroni, mensole e cornici.
Il palazzo che più significativamente rappresenta questo tema è Palazzo Beneventano, a Scicli. Emblematica la sua parte scultorea, che si può collocare nel decennio tra il 1760 e il 1770 circa, nella fase tarda della ricostruzione settecentesca. Lo scultore (o gli scultori) rimane tutt’oggi ignoto; tuttavia si può azzardare il nome di Pietro Cultraro, tra i più valenti capimastri attivi nella cittadina siciliana.
Il palazzo si caratterizza per i balconi e i ricorrenti mascheroni. Tra le sculture più rappresentative, quelle – rare nell’iconografia siciliana – che rappresentano due uomini di colore dell’Africa centrale; tema unico, rispetto a quello più noto che rappresenta saraceni, africani anch’essi ma abitanti della fascia mediterranea.
Queste sculture, unitamente ad altri splendidi esempi di scultura barocca – a firma incerta ma di altrettanto competenti maestranze presenti e operanti negli Iblei – confuta la tesi sostenuta da Sciascia, per il quale il Barocco ibleo può considerarsi come un “Barocco dei poveri”, a suo dire opera di anonimi scalpellini e artigiani locali.
Tra le mensole e i mascheroni degni di nota in area iblea, citiamo Palazzo Zacco e Palazzo Cosentini, a Ragusa; Palazzo Tommasi Rosso, a Modica; Palazzo Nicolaci a Noto; e ancora Palazzo Biscari a Catania, senza dimenticare Siracusa e cittadine di provincia. Ciò che si evince dai mascheroni e dalle mensole è una vastissima gamma di elementi, che hanno in comune la dimensione del mostruoso, che si mescola al fantastico; caratteristiche che, insieme, conferiscono alle sculture una forte connotazione ammaliante.
Elementi architettonici la cui potenza fascinatrice sembra concretizzarsi in un universo costellato da personaggi eterogenei, irreali, a volte appartenenti al mondo dell’oscuro, che attrae l’osservatore. Sintesi delle umane paure ,costituiti da figure mitologiche, a metà tra donne, bambini, vecchi e animali, attorcigliati a elementi floreali, abbelliti da pendagli, con turbanti e barbe incolte, vestiti sontuosamente o colti nelle nudità, essi hanno il grande pregio di comunicare un messaggio universale, poiché raccontano qualcosa che riguarda tutti: la paura dell’ignoto, la lotta contro il male.
Si tratta di un insieme complesso e molteplice, che lascia scoperto il senso di incertezza nei confronti della vita. Un senso d’impotenza che si concretizza nella scultura sempre fantasiosa, le cui figure, trattate con grande perizia (in modo da apparire morbide e quasi vive) trasmettono il grande senso di sfida a ciò che non è conosciuto. Quel senso d’impotenza nei riguardi delle atrocità della vita, che – al contrario – trova pace e ristoro all’interno delle chiese iblee.
Nifosì suggerisce un ipotetico viaggio, con lo scopo di fare un confronto con le sculture barocche custodite nelle pareti delle chiese iblee, in cui dominano volti angelici, putti e volti femminili di rara fattura ed eleganza. Stucchi che per il loro candore contrastano nettamente con i colori della terra sui balconi e nelle mensole dei palazzi signorili:
“Basta dare una fugace occhiata per rendersi conto che nei luoghi di culto domina una visione della vita paradisiaca, che fortemente contrasta con la visione laica della vita, in cui il tema del doppio, la paura dell’ignoto, la lotta contro il male rappresentano il lato umano delle comunità iblee”.
Comunità che, a ben vedere, si proiettano all’esterno. Ben lontane dalle comunità (per esempio) dell’Italia settentrionale – che abitano i portici delle città, costruiti per favorire ripari -, le comunità iblee si volgono all’esterno nella progettazione di balconi ampi e accoglienti, il cui scopo è quello di mostrarsi e attirare l’attenzione del passante.
Quella che propone Paolo Nifosì è una visione del palazzo signorile che pone al centro del dibattito l’uomo urbano, con le sue paure e le sue speranze e lancia una riflessione: l’arte barocca, che si identifica prevalentemente nelle cattedrali maestose come arte dei sentimenti e delle emozioni, si esprime anche attraverso la scultura nei palazzi e mette in relazione la città e l’uomo, mostrandone il suo carattere a metà tra l’eterno e il terreno. Conclude lo studioso:
“I mascheroni sono quanto di più rappresentativo del nostro territorio. Un po’ ovunque, da Ragusa a Scicli, da Modica a Noto, da Catania a Siracusa, il mascherone rappresenta figure appartenenti al mondo dell’ignoto, che lega il territorio degli iblei, con una sorta di fil rouge, al panorama siciliano”
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