Palermo: una città, i suoi sapori. Così come le chiese arabe e normanne narrano di un passato grandioso e di un presente ricco di cultura e tradizioni, allo stesso modo il cibo è parte integrante dell’identità del capoluogo siciliano. Lo street food di Palermo, che i palermitani non chiamerebbero assolutamente così, è uno dei più famosi al mondo: per promuoverlo ulteriormente, questo week end Palermo ha ospitato il Meeting nazionale sullo street food, organizzato dalla Fellowship del Rotarian Gourmet Sicilia e Slow Food.
U manciari di strada, un patrimonio unico della città: non solo per gli italiani, ma anche per turisti e bongustai stranieri. Chioschi, mercati,carretti ambulanti, un tempo cibo ‘povero’, ora diventa una tendenza nuova. E’ di qualche mese fa la classifica fatta da Virtual Toursit e Forbes, nota rivista americana: lo street food palermitano è il quinto al mondo.
Dopo Bangkok, Singapore, Menang e Marrakesh, infatti, il capoluogo siciliano conquista un meritatissimo quinto posto, in barba ai tentativi di omologare i gusti di turisti e cittadini con i vari McDonald e Burger King che anche a Palermo, nonostante la tradizione, sono diffusi. La cosa che colpisce di più i turisti, secondo la ricerca apparsa su Forbes, è proprio la varietà e la simpatia con cui lo street food viene offerto e venduto, segno di una passione profonda dei cuochi di strada siciliani per il proprio lavoro.
Il Meeting nazionale sullo street food, patrocinato dal Comune di Palermo, ha offerto passeggiate gastronomico-culturali nei luoghi simbolo del cibo di strada palermitano, come i mercati della Vucciria, del Capo, di Ballarò e il Borgo Vecchio: qui i visitatori hanno potuto degustare i panini con panelle e crocchè, i cardi, i pesciolini fritti, i carciofi in pastella, lo sfincione e molte altre specialità. Durante la sera, invece, le visite ai monumenti si sono snodate attraverso “tappe” immancabili nelle più tipiche taverne locali.
Ma quali sono le pietanze di punta della tradizione di strada palermitana? Il Daily Slow ha pensato ad un piccolo e non esaustivo elenco dei principali “piatti” da gustare per le vie di questa città unica, grazie alle sue caratteristiche di mescolanza e interculturalità. Per chi non ha mai visto il capoluogo siciliano e non sa come orientarsi fra gusti e odori così ricchi.
Panino panelle e crocchè. Uno dei principali “spuntini” palermitani a base di ceci e patate. La panella è una frittatina preparata con farina di ceci, abbondante prezzemolo e acqua: introdotta dagli arabi, a cavallo tra il IX e l’XI secolo.
Le crocché, sono le tipiche croquettes francesi in versione sicula: dette anche cazzilli, sono fatte con uova e patate ridotte a purea, a volte preparate anche con la variante del latte al posto delle uova, e abbondante menta. Insieme vanno nella mafalda, panini morbidi e rotondi, ricoperti di sesamo, ma non è raro trovarli anche in altri tipi di panini. Immancabile, il succo di limone spremuto sopra panelle e crocchè, prima di chiudere il panino.
Pani ‘ca meusa. Il pane con la milza o, come pronunciano i palermitani, u pani c’a miévusa: uno dei piatti dello street food palermitano più famosi al mondo. Solitamente gustato dentro la vastedda, panino grosso e rotondo ricoperto di sesamo: ma anche qui le varianti non mancano. Dentro alla vastedda, il meusaro mette un ripieno di milza di vitello bollita, a cui spesso viene aggiunto il polmone, successivamente fritti nella strutto.
La preparazione è molto complessa: dopo aver bollito milza e polmoni questi si appendono in alto, perché la frittura finale nello strutto dev’essere fatta all’ultimo minuto, proprio prima di consegnare il panino. L’origine di questo panino sembra risalire al medioevo, quando gli ebrei palermitani non potevano accettare denaro per la macellazione della carne, in osservanza delle norme religiose: come ricompensa accettavano le interiora, che poi bollivano e rivendevano ai cristiani. Dopo la cacciata degli ebrei da parte di Ferdinando II d’Aragona, l’usanza di mangiare pane e interiora passò agli strati cristiani più poveri, che approfittavano degli scarti alimentari delle famiglie nobiliari.
Varianti: il panino classico viene detto schettu, ovvero celibe: se invece viene aggiunto caciocavallo grattuggiato o ricotta viene detto maritatu, cioè spostato.
Arancine. Rigorosamente femmine, a differenza del resto della Sicilia, pare che le arancine siano state importate dagli arabi, che usavano mangiare riso e zafferano condito con carne, erbe e spezie. Come metodo per conservare meglio il cibo, durante il regno di Federico II si sperimenta frittura e impanatura, che rende le arancine ideali per le prolungate battute di caccia. Il nome deriva da “melarancia”, acquisito durante il 1700, quando le arancine erano presumibilmente dei dolci: l’accostamento alla festa di Santa Lucia fanno si che ancora oggi il 13 dicembre le arancine vengano consumate come pasto principale. L’arancina è uno dei prodotti italiani più diffusi all’estero.
Sfincione. Lo sfinciuni (o spinciuni) prende probabilmente il suo nome dal latino di spugna, spongia, oppure dall’arabo isfanǧ, una frittella dolce condita con il miele.
E’ un pane pizza abbastanza lievitato su cui viene messa salsa di pomodoro, ricotta salata, cipolla, acciughe e, a volte, caciocavallo ragusano. Prodotto nelle rosticcerie, viene più spesso venduto per strada, dagli ambulanti su veicoli a tre ruote, i lapini. Uno sfincione fatto a regola d’arte vuole che la pasta non sia assolutamente pregna di olio.
Variante di Bagheria è lo sfincione bianco, cioè privo della salsa di pomodoro.
Quarume, stigghiola e frittula. Il quarume, che in italiano si traduce con “caldume”, cioè pietanza calda, è uno dei piatti più poveri della tradizione dello street food palermitano. Il quarumaru è una presenza tipica agli angoli delle strade: il quarume si consuma caldo, insieme a un bicchiere di vino rosso o di passito. E’ fatto dalle viscere del vitello bollite con cipolle, prezzemolo, sedano e carote nella quarara: una pentola rotonda in metallo, dalle notevoli dimensioni.
Le stigghiola, budella di agnello o vitello, vengono preparate dallo stigghiularu: uomo di fiducia del palermitano, cui ci rivolge esclusivamente. Le interiora, dopo essere state lavate e condite con prezzemolo e a volte con la cipolla, vengono cotte sulla brace. Si consumano direttamente sul posto, accompagnate da limone e condite con il sale, sempre a disposizione dei clienti.
Anche la frittola è particolarmente povera: ricavata dalla lavorazione delle ossa e degli scarti delle macellerie e messa a cuocere per lungo tempo, in modo da far staccare i residui di carne dalle ossa e dalle cartilagini e fa ammorbidire il tutto. I pezzetti di carne, cartilagini e calli vengono fritte nello strutto e insaporiti con alloro, zafferano e altre spezie. Le frittole, che risalgono probabilmente al cinquecento, ancora oggi si presentano conservate in un cesto di vimini, per mantenere la temperatura adatta: si può mangiare in un panino o da sola, rigorosamente coperta da succo di limone. Insieme alla meusa, la frittola è la colazione del palermitano dallo stomaco forte.
Pollanca. Un piatto di strada tipicamente estivo che attirava tutti, poveri e ricchi: è la pannocchia bollita, che vengono “pescate” dai pentoloni degli ambulanti con lunghi forconi. La pannocchia, infatti, dopo essere stata cotta, è lasciata a riposare nel pentolone, finché non raggiungono la temperatura adatta per servirle.
Rascaturedda. La rascatura, o raschiatura, è un’invenzione creata dai palermitani per evitare di sprecare il cibo: nasce grazie al riutilizzo di ingredienti già cucinati per altro. Nelle friggitorie, infatti, a fine serata rimanevano pentoloni di impasti vari, da quello delle patate per le crocché, a quello dei ceci per le panelle: anziché buttarli, i cuochi palermitani hanno iniziato creare dei misti.
La fusione degli impasti è sempre variabile e questo mette in luce la sapienza del cuoco: è difficile mescolarli, perché fatti di diverse densità. La forma delle rascature è triangolare e vengono vendute a prezzi estremamente competitivi, proprio perché frutto degli “scarti” della cucina.
Mussu e carcagnolu. Altri due piatti di strada, creati degli scarti delle famiglie nobiliari palermitani: in quinto quarto dell’animale, piedi, testa e muso del maiale. Una volta puliti e lessati, vengono fatti raffreddare e tagliati a pezzettini che l’avventore può mangiare con le mani, intingendoli nel sale, col metodo conosciuto come a stricasali. Nella versione moderna dei ristoranti cittadini vengono spesso serviti conditi con olio e accompagnati da insalata fresca.
Purpiceddu. Anche qui, un piatto e un mestiere: il purparo. Insieme al cicireddu, pesciolini fritti, il polipo appena pescato e bollito è una delle bontà di strada che provengono dal mare. Una volta cucinato, il purparo espone il polipo in bella vista sul bancone, insieme ad abbondante limone e prezzemolo. Una variante casalinga è il purpiceddu muratu, ovvero in umico.
Tag:cibo, cibo di strada, enogastronomia, italia, palermo, Sicilia, street food, territorio, turismo lento, viaggi