Venezia la ricordavo semplicemente malinconica. E invece l’ho ritrovata, dopo dieci anni, scintillante.
Quando sono scesa dal treno, ho subito cercato la malinconia, sopra il canale di fronte alla Stazione di Santa Lucia, in una mattina gelida di gennaio; e per un attimo credevo di averla trovata. Ma era una malinconia diversa, luminosa, perché il cielo era così azzurro da risollevare le sorti di qualunque cosa fosse accaduta durante la notte o durante i dieci anni precedenti. E una malinconia luminosa non si può chiamare malinconia.
La malinconia io me la aspettavo là dove l’avevo lasciata. E invece non l’ho ritrovata.
Come quando aspetti di rivedere una persona dopo tanto tempo e, anche se cerchi di non avere aspettative, invece qualcosa ti aspetti per forza. Un bagliore negli occhi. La cadenza di una battuta. Il modo in cui china la testa di lato. Lo stesso modo in cui ti ha fatto stare bene o ti ha fatto stare male.
Dieci anni fa ero andata a Venezia a vedere una mostra: Dalì a Palazzo Grassi. Pioveva. E ricordo una me stessa ventenne, minuscola, su un vaporetto incerto sul Canal Grande, a guardare la pioggia inghiottita dall’acqua e l’acqua inghiottita dai ponti e i ponti inghiottiti dalle case; e mi ero detta no, a me Venezia non convince per niente. Qua mi sento inghiottita anche io.
E poi, all’inizio di gennaio ci sono tornata. Il programma della giornata era, semplicemente, camminare. E così ho camminato. Tra i turisti principalmente e sembravamo tutti uguali: qualcuno di giornata, qualcuno di passaggio, qualcuno alla scoperta, qualcuno incredulo, qualcuno innamorato, qualcuno organizzato, tutti con la macchina fotografica.
Mi sono chiesta: ma Venezia esiste davvero? O l’hanno lasciata qui, immobile negli anni, a farsi vedere? E i veneziani esistono? Sono qui, in mezzo ai turisti, confusi tra la folla, come lo sfondo di una nostra foto in posa?
Mi sono persa. Volutamente. Io che cerco di non perdermi mai. Io che sono quella del foglietto in tasca con le strade da percorrere, perchè non si sa mai se poi mi incasino con il gps. Avevo in mente la direzione: se vado “in là” non posso sbagliarmi. Ed è stato tutto uno scintillare tra ponti e calle, tra gondole, colori, finestre, tra menu turistici, cappelli e maschere, tra piazze inaspettate dopo un canale e canali inaspettati dopo un portone.
Mi sono persa e ho fatto pace con Venezia. Ho osservato a lungo la foschia dalla Riva degli Schiavoni, ho camminato verso Piazza San Marco e da Piazza San Marco sono arrivata – non so come – al Castello e all’Arsenale, facendo un giro lunghissimo. Poi, di nuovo, mi sono persa. Ho pranzato. Sono entrata in qualche negozio e in un paio di bar. Poi vaporetto, fino al Peggy Gugghenheim, dove ho conosciuto un signore molto distinto, di Venezia. “Sono venuto a fare una passeggiata” – mi ha detto. Poi ho camminato di nuovo. Poi ho preso un vaporetto di nuovo, fino a Rialto. A Rialto ho aspettato il tramonto, sul ponte, insieme ad altre trecento persone, mentre l’umidità diventava scivolosa sotto i piedi.
E, nel tramonto, l’ho vista. Ho visto Venezia come fosse un ragazza. Una ragazza, non una donna. Una ragazza che non sta invecchiando, perché rimane uguale. Rimane disegnata, scolpita, mentre galleggia, mentre le persone le camminano intorno, sopra, sotto, dentro, mentre la calpestano, la esaltano, la dipingono, la soffocano, mentre la inghiottono, la fotografano, mentre danno la colpa all’acqua. Ma Venezia ride e dice: “Ma cosa date la colpa all’acqua… l’acqua è sempre stata lì”.
Venezia è una ragazza che trova un modo. Un modo per andare avanti. Resta immobile nel tempo, medievale, moderna, antica, nuovissima, con le sue code fuori da Palazzo Ducale, i suoi Mori, i suoi Leoni, con il suo Carnevale che sfida ogni logica, le sue tradizioni che ti guardano dall’alto in basso. Venezia sta lì e trova un modo per andare avanti, per restare in piedi, per far arrivare ogni giorno milioni di persone che poi ripartono… lei continua a galleggiare leggera. Doveva già essere sparita molte volte, dicono, sparirà, dicono: ma lei resta lì. E si adatta. E trova un modo.
Come fanno gli esseri umani in molti ambiti diversi, per cavarsela, per essere felici insieme, vicini, lontani; proprio come facciamo noi, che spesso diamo la colpa all’acqua, all’aria, alla terra, al fuoco, quando le cose non funzionano, ma che in realtà sappiamo benissimo cosa dobbiamo fare, senza scuse né paure: trovare un modo.
C’è una parola che è perfetta per definire Venezia, una parola che si usa in diversi ambiti: psicologia, architettura, scienze dei materiali, informatica, ingegneria. Questa parola è “resilienza”.
La capacità di reagire, di riadattarsi positivamente, di modificare la propria forma ma non la sostanza, la capacità di trovare un modo. E quindi, di andare avanti.
E ridere, di nuovo, distogliendo lo sguardo.
Tag:carnevale, Dalì, Palazzo Grassi, resilienza, Venezia