
Il medico Giuseppe Pitrè
Per inquadrare il senso delle opere di Serafino Amabile Guastella [antropologo siciliano, n.d.r.], comincerei a puntualizzare sul significato di folklore: l’insieme di materiali della tradizione popolare (miti, leggende, racconti, proverbi, indovinelli, superstizioni, giochi, canti, feste e sacre rappresentazioni, ecc.). Nato nel 1846, folklore è composto da folk, cioè “popolo”, “ceto contadino”, “classe subalterna” e lore, cioè “sapere”, “sapienza”, “cultura”.
Il medico palermitano Giuseppe Pitrè, muovendo dalla convinzione che le tradizioni popolari abbiano una loro psicologia radicata nella storia, propose, nella celebre prolusione tenuta nel 1911 all’Università di Palermo, anche il termine “demopsicologia”.
Nel costituirsi dell’indagine folclorica, basata sulla tecnica dell’ascolto immediato e della successiva trascrizione nel più scrupoloso rispetto dei caratteri fonetici e morfosintattici della dialettalità, al fine di definire una condizione umana, la Sicilia si affiancò all’Europa, grazie all’azione svolta da intellettuali di notevole spessore che, salvando tutto un patrimonio artistico, narrativo e figurativo, a cui fino allora nessuno aveva fatto attenzione, ci hanno consentito di possedere una visione più completa della storia dell’isola.

Un simbolo del folklore siciliano (www.nikonclub.it)
Di ciò era consapevole Giuseppe Pitrè che, dopo la prima edizione dei Canti Popolari Siciliani Raccolti e Illustrati (1870-1871), si avviò alla raccolta di fiabe e novelle, trascritte nel più scrupoloso rispetto della pronuncia dei parlanti. L’opera, costituita da quattro volumi ed edita nel 1875 col titolo di Fiabe, Novelle e Racconti del Popolo Siciliano, confluì poi nella Biblioteca delle Tradizioni Popolari Siciliane, imponente raccolta in 25 volumi del folclore siciliano.
A questo nuovo approccio si lega l’opera di Serafino Amabile Guastella, per molti aspetti caratterizzata dall’indagine sulle manifestazioni culturali presenti nel territorio paesano e rurale dell’ex Contea di Modica. Nato nel 1819 a Chiaramonte Gulfi, dove nel 1899 morì, fu innanzitutto l’educatore e il pedagogista che, in diversi scritti, rivolse attenzione ai temi della riforma della scuola.

Un’immagine antica del Carnevale siciliano (www.girasicilia.it)
Quando in Sicilia essere barone significava condurre una vita per lo più parassitaria, egli insegnava al ginnasio comunale di Modica e al liceo pareggiato della città, dove in seguito fu nominato titolare di lettere italiane, grazie ai suoi meriti letterari. Nel 1876 pubblicò i Canti Popolari del Circondario di Modica e L’Antico Carnevale della Contea di Modica. Nell’incipit di quest’ultima opera, Guastella muove da un preciso interrogativo e tratteggia il suo intento saggistico:
“Se a un centinaio dei nostri vecchi si rivolgesse questa modesta domanda: “Mi dicano un po’, che cos’era il carnevale nella Contea? c’è da scommettere che i cento Matusalemmi rispondessero a coro che il carnevale era una pazza allegria e chiassosa, la quale trovava sfogo in qualche gruppo di maschere più o meno balzane, in qualche ridotto più o meno vivace, in qualche banchetto, ove il cuoco reale veniva a contatto con la cucina domestica. E stando a occhio, era così.
Chi però volesse farne l’autopsia, chi per entro a quel viluppo di stravaganze volesse investigarne i principi vitali, troverebbe con meraviglia, che gli elementi che lo costituivano eran fra loro sì pazzamente discordi, tendevano anzi a fini sì opposti, che non so per qual miracolo chimico si giunse a farne unico impasto. Or l’uno di questi elementi era un vivace e schietto impulso a concordia e a beneficenza: non di quella che ai nostri tempi è spesso divenuta pretesto a sporche speculazioni; ma di quella vera, di quella che ci allarga il cuore; laddove l’altro elemento era una sconfinata libertà di censura verso usi, costumi e istituzioni e credenze, riguardate in ogni altra parte dell’anno con riverenza cieca o affettuosa” .

Carnevale siciliano moderno (www.girasicilia.it)
Andando avanti nella lettura, ci si accorge che l’autore esamina i significati del Carnevale – quello durato sino al ’48 -, con il taglio non tanto del saggista quanto dello scrittore. Sia pure a volo d’uccello, cerchiamo di cogliere alcuni aspetti, sparsi nei sette capitoli, utili a darci l’idea di una festa che irrompeva nelle case, nelle vie e nelle pubbliche piazze, abolendo ogni sorta di barriera fra attore e spettatore.
In qualità di scienziato del folclore, Guastella spiega che in questa complessa manifestazione della vita sociale concorrono fenomeni diversi e contrastanti, quali l’elemento cristiano della solidarietà e quello pagano della satira mordace e licenziosa. Egli annota che il periodo carnevalesco iniziava il 12 gennaio, giorno successivo alla ricorrenza del terribile terremoto del 1693. Il primo febbraio, vigilia di Maria di Purificazione, si svolgeva un rito della religiosità popolare:
“Le contadine di Chiaramonte – scrive Guastella – avevano per costume di recarsi all’Arcibessi, montagna che sovrasta il paese, e quivi purificarsi mercé l’abluzione della rugiada. Salivano esse a frotte, appena spuntata l’alba, e in atto di compunzione sincera andavan recitando il rosario della Madonna, ma appena giunte al luogo prefisso, cantavano a coro, e ciascuna per sé la lauda seguente, che quantunque rozza, ha il pregio di una semplicità, e di una devozione sì schietta, che di rado s’incontrano nelle nostre laude volgari… E, dopo aver recitata la lauda, s’inginocchiavano, e, diguazzando le mani per entro all’erbe stillanti di rugiada, snocciolavano un’ave, e si segnavano in fronte col dito umido; poi un’altra avemaria, e un segno di croce sul petto, e finalmente una terza ave, e una croce sul labro”.

Un’altra immagine del Carnevale siciliano (www.lapisnet.it)
Viene spontaneo ripensare al significato purificatorio delle februae romane – strisce tagliate da pelli di capra sacrificate, che i giovani sacerdoti (luperci) portavano attorno alle anche. E i loro riti appunto si svolgevano nel mese di febbraio, per esorcizzare il male proveniente dall’attacco dei lupi famelici durante il lungo periodo invernale. Nell’intreccio, dunque, di forme archetipiche e di sopravvivenze culturali, si svolgeva un rito che è canto di bellezza del sacro e antica memoria di una società patriarcale legata alla purificazione, in un legame di gruppo e partecipazione.
Riferendosi ai giorni antecedenti al mercoledì delle ceneri, in cui il divertimento giungeva al più alto grado di manifestazione, Sdirri – precisa poi lo studioso in una nota del capitolo –, corruzione del francese dernier, era il prefisso dei giorni più famosi di tale festività: sdirrumìnica, sdirriluni, sdirrimarti, e la sera del martedì sdirrisira. Riguardo ai giovedì, se ne distinguevano tre: il giovedì grasso – o berlingaccio toscano -, chiamato jiovi di lu lardaloru; il giovedì precedente detto jovi di li cummari; e quello ancora prima, jiovi di lu zuppiddu, con cui iniziavano i festeggiamenti.

“U Zuppiddu” (www.webalice.it)
Guastella, avvalendosi di un documento del 1776, spiega che in quest’ultimo giorno si distribuivano ai poveri i vermicelli (particolare tipo di pasta), analogamente a quanto accadeva a Verona nel “venerdì gnoccolaro”. Cavalcate festeggiavano la nascita di Bacco, corrispondente al Re Carnevale, con danze accompagnate da canti e da rappresentazioni. Nel corteo, fra i satiri, lo Zuppiddu era la personificazione di uno dei diavoli che facevano parte della credenza popolare e a lui spettava il compito di pervertire gli uomini mediante la voluttà, l’allegria, la spensieratezza.
Il giovedì successivo tutti potevano “cammararisi”, termine dialettale che sta ad indicare il vincolo del comparatico, che si traduceva nei doni offerti ai bimbi da parte della comare:
“Era difatti in quel giorno che le comari andavano in giro a fare e a render visite: era in quel giorno che nelle famiglie popolane solea scannarsi il maiale; e allora un paio di costole, un’ala di fegato, un mezzo rocchio di sancirli (è così che la nostra plebe chiama la dòlcia), erano e son tuttora doni accolti con sincera effusione. La comare che avea tenuto un bimbo a battesimo, era convitata dalla comare, madre del bimbo; e quella era l’occasione perché l’invitata facesse un regaletto al figlioccio: un paio di orecchini, o una festicciola, o un grembiulino, se femmina; un abituccio, se maschio. In questa guisa gli affetti si rinsaldavano; un po’ di malinteso, un dissapore, un’insinuazione maligna venian posti in chiaro, o vi si mettea un po’ di cenere” .

Il minestrone del Giovedì Grasso (carnevaleinsicilia.wordpress.com)
Nasceva da questa usanza il detto Lu jiovi di cummari/cu’ nun n’ha si li fa ‘pristari. Il giovedì grasso, come già è stato precisato, era anche detto di lu lardaloru, per l’uso di un minestrone che solitamente si faceva in quel giorno: aveva il potere taumaturgico di sanare le discordie familiari e dunque con tale pietanza si festeggiavano l’unità e l’armonia familiare. Il suo principale ingrediente era costituito di grossi pezzi di lardo cui venivano mescolati erbe ortalizie e legumi, ed esso aveva la “virtù del ferro calamitato”: ricomponeva i conflitti tra generi e nuore, tra figli e figlie che non potevano rifiutare in quel giorno l’invito del capo famiglia.
Era, dunque, soprattutto il ricongiungimento familiare che caratterizzava il modo quasi religioso con cui veniva avvertita tale ricorrenza e lo scrittore, che fornisce a questo punto un quadro abbastanza chiaro delle attività economiche che allora si svolgevano in luoghi distanti dal paese, fa avvertire l’aspettativa e il senso del rientro a casa, dove s’integravano affetti e tradizioni.
Tra gli usi ispirati al messaggio evangelico, il rito del dono nel giorno del martedì grasso dava luogo, in modo sincero e senza fini nascosti, al vincolo comunitario e rendeva solidali i rapporti contro l’incertezza del domani:
“Il martedì grasso era la festa del povero né mai il quod superest venne applicato con più retta intenzione. In ogni famiglia, anche fra le più umili, venia prelevata la parte dell’indigente, e mandata con amorosa premura a quei fra gli storpi o a quella fra le cieche, o fra gl’inetti al lavoro ch’erano più conosciuti o stavan più vicini di casa; e le parole che accompagnavano il dono eran schiette e cordiali, quali convenivano a gente, che nell’esercizio della carità credeva adempiere ad una mutua retribuzione sociale. Hodie tibi, cras mihi: e difatti chi potea assicurarli, che da lì a poco gli oblatori non potessero trovarsi nello identico caso dei sovvenuti?”.

Carnevale di Acireale (carnevaleinsicilia.wordpress.com)
Quanto all’elemento pagano, inteso come “licenza anticristiana” e come libertà dalla censura, esso era rappresentato dalla satira sociale contro i soprusi del ceto egemone. E c’era anche il divertimento del “cortile”, dove non mancavano le beffe rimate chiamate Jabbu e i momenti corali in cui ciascuno faceva a gara nel dire gli indovinelli. Era uno spasso collettivo e gli ascoltatori, mettendo in moto la mente, si cimentavano a trovarne la soluzione.
Il senso erotico, presente in molti di essi, era sicuramente originale: un’arguta e sfiziosa licenza, da un lato, metteva in rilievo le pulsioni più represse, dall’altro stuzzicava la creatività alla scoperta del significato genuino che si nascondeva in parole apparentemente oscene, tali da destare chiassosi divertimenti. Lo spasso si amplificava quando in quei giorni venivano eseguite le punizioni date ai trasgressori dall’Inquisizione.
In proposito, Guastella ricorda la pena inflitta a Rosa Di Cunta, contadina amante del figlio del barone di Canzeria, che si manifestava in una rappresentazione sconcertante e crudele. Il documento d’un cronista locale del Settecento trascritto dal nostro autore è una pagina che coglie i profili quasi fotografici d’una feroce realtà filtrata dallo sguardo illuministico del nostro autore. Trasportata nelle carceri femminili, il boia taglia alla donna i capelli e le rade le sopracciglia. Poi, denudata fino alla cintola e posta su di un’asina zoppa, i persecutori le fanno girare le vie del paese, mentre di tanto in tanto viene frustata. Intanto l’intera comunità partecipa a quella esibizione fischiando, ingiuriando, gettandole addosso immondizie; giunta la sera, le autorità ecclesiastiche, cui il barone aveva denunciato l’illecita tresca amorosa, si ritrovano a cenare in casa sua. Il magistrato, osserva il Guastella, oltre a credere infallibile il proprio giudizio, rendeva operativa la sentenza in un apparato scenico “criminale”. Sicché, l’esibizione della malasorte altrui, invece di ammonire, dava luogo ad un divertimento insensato.
Erano giorni, quelli del Carnevale, in cui il popolo poteva tirar fuori la rabbia sociale covata in corpo per un anno. E in questo particolare clima di provvisoria legittimazione dell’arbitrio e dell’arbitrario, caratterizzato da un rovesciamento di valori codificati, di gerarchie e rapporti di potere, vengono prese in esame sia le maschere in cui chiaramente si configurava la divisione in classi sociali, sia la satira che è certamente una costante umorosa del libro. Anche in questo caso la sopravvivenza dei costumi romani è innegabile, in quanto come nei “Saturnali”, in cui i padroni servivano i servi, ci si trova dinanzi al motivo di una renovatio mundi, cioè il “rinnovamento del mondo”, attraverso il riso, l’utopia, la partecipazione popolare.

Carnevale di Acireale (www.girasicilia.it)
Siamo così nel paradossale capovolgimento dei valori consueti, per cui è lo schiavo a servire il padrone. Il re diventa il servo ed ogni licenziosità è ammessa per la nascita di un nuovo ordine: e quello carnevalesco, stando alla felice espressione di Bachtin, era “un mondo alla rovescia”, in quanto con la sapiente arma popolare del riso dissacratorio venivano denunciate violenze e restrizioni, paure e intimidazioni.
La lettura del Carnevale, mandata avanti da Guastella, che mostra di aver conosciuto l’opera di Rabelais Gargantua e Pantagruele (postuma, 1564), passa, dunque, nelle fasi di un teatro dove le scene mutano, ma ognuna si ricompone in una medesima direttrice, che è insieme farsa, bisogno di valori patriarcali e manifestazione di ribellismo sociale.
Davvero suggestiva è la pagina dove lo scrittore fa rivivere un rito popolaresco e ridanciano: il Re burlone vi appare agli ultimi sgoccioli della sua vita. Si trova attorniato da vari pulcinella che piangono, da pagliacci che ne decantano le virtù e da medici che, con crudele e ironica insistenza, gli nominano i piatti più gustosi.
Egli, non potendo più essere l’ingordo di prima, rifiuta quelle offerte, ma, appena scorge tra la folla una piacente fanciulla, si rianima e manifesta un desiderio voglioso che l’imminenza della morte non riesce a cancellare. La rappresentazione si fa più farsesca allorquando, parlando della maschera della moglie di Carnevale, l’autore organizza una linea di azione, dove si esprimono il gioco, lo sberleffo, la sghignazzata, la danza.

Il Re Burlone (passaparola.corriere.it)
Un flash incisivo è quello raffigurante il corteo che, in processione, lamenta l’imminente morte di Carnevale con grida strazianti alternate al canto funebre. Certo, la morte è un elemento immancabile nel Carnevale e gli schiamazzi sono un tentativo di espellerla dal circuito della quotidianità, cioè di allontanarla dalla vita.
Del resto, una maschera e un rituale testimoniano il contrasto tra il bene e il male. La Vecchia di li fusa, “reliquia simbolica delle Parche”, è mostruosamente maligna:
“Simboleggia la prossima morte di Carnevale, e i fanciulli che la inseguono esprimono il tentativo di strapparle la rocca, onde allungare i giorni del Semidio moribondo”.
Con la descrizione del paesaggio chiaramontano, si chiude l’opera. Se orrido e desolato appariva a Guastella il paesaggio dell’interno della Sicilia, argilloso e dirupato, sferzato dal caldo feroce che rende nude le campagne o dal gelido vento dell’Etna che “penetra entro il corno del bue”; se inaffidabile era per i viaggiatori quel territorio frequentato da briganti, lo scenario nativo che aveva davanti gli comunicava un senso di serenità, di quiete interiore. Gli spazi scenici stavolta non raccontano desolazione e squallore di povera gente. Allora il rapimento estetico, che rende surreale la visione, recupera familiari certezze: è però balsamo fugace, ingannevole conforto, dal momento che tutto si avvolge di spietate precarietà.

Carnevale ad Avola (SR): carnevaleinsicilia.wordpress.com
L’io narrante, intanto che guarda il ritorno festoso in paese di contadini e pastori, sente infatti il rito del carnevale come “felicità di un sol giorno”. Quasi voglia dire, Guastella, che la percezione visiva, e sensoriale in genere, svolge un ruolo fondamentale a determinare il senso dell’identità. Il paesaggio, infatti, è la fisionomia più vitale, per la quale un territorio si differenzia dall’altro, e in chi l’osserva con uno sguardo del tutto soggettivo, suoni e profumi, colori e forme si fondono fino a provocare emozioni di vario tipo.
Concluderei dicendo che a distanza di più di un secolo, a Serafino Amabile Guastella, definito da Cocchiara alla fine degli anni Cinquanta “il barone dei villani”, è stato ormai riconosciuto un merito specifico: quello di avere introdotto nella letteratura un metodo realista d’indagine, nel quale folclore e narrativa trovano sviluppi originali di consapevolezza culturale e pregevole chiarezza stilistica.
FEDERICO GUASTELLA – BIOGRAFIA
Il brano è desunto dal volume “Chiaramonte Gulfi – La mia diceria” (in vendita presso la libreria Paolino di Ragusa).
Federico Guastella, già dirigente scolastico, ha pubblicato in diverse riviste e libri contributi di pedagogia e didattica, nonché saggi su scrittori italiani. Alcuni suoi racconti hanno visto la luce sul quotidiano “La Sicilia” di Catania. Nel 1998 ha dato alle stampe il racconto lungo La casa di campagna; nel 2001 Una notte d’estate e altri racconti. Nel 2009 ha pubblicato il volume di poesia Nel tronco incavato.
Suoi componimenti poetici hanno ottenuto riconoscimenti e risultano pubblicati in più antologie. Due suoi saggi, Colapesce e Mediterraneo, sono apparsi nel volume Sicilia, edito dalla casa editrice Enjoy di Ragusa. Un suo lavoro intitolato “Risorgimento ibleo: impegno politico e speranze tradite” si trova nella rivista “Senzatempo” (volume n. 4 a cura della casa editrice “La Rinascita” di Chiaramonte Gulfi), stampata in occasione del 150° anniversario dell’unità d’Italia.
Nella medesima rivista: “Briciole paesaggistiche” (luglio 2010); “Mariannina Coffa, la poetessa di Noto a Ragusa” (dicembre 2010); “Tra profumi e colori, il Giardino: dal privato al pubblico” (luglio 2011); “Lo sguardo e la memoria” (aprile 2012). La redazione Sololibri.net pubblica on-line le sue recensioni sui libri di Andrea Camilleri e di Gesualdo Bufalino. Sono del 2012 la raccolta di poesie Geroglifico (Libreria editrice Urso, Avola) – recensita sul quotidiano “La Sicilia”, “La Repubblica” di Palermo e sul periodico “La provincia di Ragusa” – nonché il racconto (in collaborazione), Colapesce. Nel 2013 è apparsa Nuvole a cura dell’editore Urso di Avola. Sono del 2014 la raccolta di poesie Tu, mio giorno e mia notte, nonché il volume Chiaramonte Gulfi – La mia diceria.
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