
Il signor Alecci
“La sdirruminica fatti amica la monica”. Così saggiamente consigliava Serafino Amabile Guastella nel suo studio su “L’Antico Carnevale della Contea di Modica”. Lo studioso raccoglie ragioni e usi di una festa che oggi non ha più niente dello spirito dell’antico. Forse, però, affermare che nulla è rimasto non rende giustizia alla sopravvivenza di certi usi che sono ancora vivi in alcune aree dell’altopiano ibleo.
Durante gli incontri avvenuti nell’ambito di una più vasta ricerca sul territorio, mi è capitato di chiedere agli intervistati notizie che riguardassero le usanze del Carnevale, con particolare riguardo alla preparazione dei piatti tipici.
A Frigintini (RG), scrivo tre capitoli di questa ricerca. Il signor Alecci. Ci apre la porta di un moderno appartamento. Si appoggia al bastone. All’interno, il tepore è discreto. La moglie si scalda accanto a una stufa a gas: “I termosifoni non funzionano”, spiega. La figlia, occhi grandi e pelle bianchissima, ci porterà il caffè più tardi.
Vengo al dunque: “Ma il Carnevale nelle campagne?”. “Il Carnevale era a festa ra panza! Io ero iarzuni. Questo significa che notte e giorno ero al servizio del massaro: lavoravo nto Massa Angilu u Puddasciaru. Ci svegliavano in piena notte anche dopo un giorno di lavoro massacrante e se per caso qualcuno si ribellava veniva cacciato. Però non ci faceva patire la fame. A mezzogiorno minestra, la sera fave. L’indomani la pasta con le fave. Ci chiamavano scazzamurri. A Carnevale però ci facevano i maccarrunedda nel sugo di maiale. Qualche anno c’era pure la carne!”.

I “maccarunedda”

La signora Talina
A questo proposito, incontro la signora Talina, una sorta di microcosmo vivente. Si prepara la ricotta da sola, impasta il pane per la sua famiglia e ha una età imprecisata. Quello che la rende indelebile è la convivenza, in sé, di passato e presente, con una tenace resistenza del primo, in forma di ricordo.
Piegata sulle sue spalle, ci ospita in cucina. Lì, il tempo che è stato incontra il presente. In un angolo, ‘a quartara per l’acqua, memoria di un pozzo ormai dismesso. In una pentola di rame, l’acqua bolle. La televisione ricorda i programmi della serata e un orologio a cucù ci riporta alla nostra intervista. Sul grande tavolo “u pettini pe maccarrunedda” e poi lunghi bastoni di canna nei quali la signora avvolge la pasta. “I maccarrunedda ce li mangiamo a Carnevale, quando vengono i miei figli. Ma il dolce ra devozione è a ‘mpagnuccata. Ci vogliono 2 uova e poi si incorpora la farina. Niente zucchero”. Mi spiega come fare l’impasto.

La “mpagnuccata”
Ecco che tornano le parole del Guastella. Anche lui citava, tra i dolci che preparavano le monache, proprio le “mpagnuccate”. Per dirla con lui: “La pagnuccata, scorrezione di pinocchiata, è un dolce a forma di pinocchia, di farina impastata con gialli d’ova, poi fritto nel grasso porcino, indi cotto e ingiulebato nel miele”.

La signora Maria
La signora Talina ricorda che, tra i dolci tipici, vi erano anche i mustazzola. Già, ma per quello ci vuole la signora Maria. Il terzo capitolo. La sua casa è circondata da un alto muro a secco. Un viale lastricato di ampie basole introduce a un baglio di cocci regolari, levigati dal tempo. In quell’ ambiente tutto è rimasto come all’inizio del secolo scorso, come in una lunga incessata attesa. La cucina sembra quella di un museo e l’odore richiama la memoria di bambina. La signora Maria ci parla tra indovinelli e nivinagghie, mentre impasta farina e miele per i noti biscotti.
L’odore delicato del miele ci riporta al Guastella, che tra i dolci del Carnevale ne cita anche uno particolarissimo. È la testa di turco. Di questo dolce rimane un ricordo nella vetrina della storica dolceria Bonajuto di Modica. Ma a Scicli lo preparano ancora.
Narra la storia che, nel 1091, le “saracinesche armate” sbarcarono sulle coste siciliane per tentare di conquistare l’isola. Il conte Ruggero d’Altavilla, comandante delle truppe normanne sopraffatte dai Saraceni, decise di affidare la propria sorte al cielo, chiedendo un aiuto divino. E l’aiuto arrivò sotto forma di una Madonna guerriera che guidò l’esercito normanno, sconfiggendo gli invasori. Ai Turchi non rimase che tornarsene nei loro paesi, consumando il “trofeo dei vinti”. Un dolce a foggia di turbante ripieno di crema. La testa di turco, appunto.

I “mustazzola”

Testa di turco
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