Si chiamava Monti di Mola. Era un territorio isolato, per lo più impervio, solo le capre riuscivano a penetrarvi, naturalmente a loro agio tra i massi di granito e la macchia mediterranea.
Il ginepro era tanto, le case o meglio “stazzi” pochissimi. Le mucche spesso passeggiavano in spiaggia indisturbate.
Non c’erano strade, non c’era acqua, non c’era nessun servizio. Ma tutto cambia.
La bellezza di questo paradiso non rimane inosservata a lungo.
Non tutti infatti sanno che Monti di Mola risponde al nome attuale di Costa Smeralda,oggi famosissima in tutto il mondo.
Il progetto prende vita negli anni sessanta e da allora, quando in Sardegna parliamo di turismo, non possiamo fare a meno di citarla.
In un modo o nell’altro, influenza la definizione di turismo che ognuno di noi ha.
C’è chi prova ad imitarla in altre parti dell’isola, chi la evita, chi ci convive, insomma i sentimenti sono contrastanti, ma non la puoi ignorare.
Vista dall’interno dell’isola, quella costa, dal mare meraviglioso e con gli hotel 5 stelle superior, sapevamo ben poco.
Ma una cosa era ben certa, non ci apparteneva. In nessun modo.
Come se parte di quel territorio ci avesse lasciato per sempre, amputato alla radice dalle sue origini.
Per noi, la nostra isola si fermava a quel masso di granito con la scritta COSTA SMERALDA, riposto all’inizio del territorio di Monti di Mola.
Da sempre ho ragionato su cosa ci portasse a vivere quel tipo di modello turistico con distacco, con quel senso costante di non appartenenza, quasi come se fosse un’ “invasione”, ovviamente, accordata pacificamente dai proprietari dei terreni per 550 mila lire all’ ettaro. La risposta che mi viene in mente è una sola, ci sentiamo “esclusi”.
È un modello d’esportazione, che non tocchiamo con mano e per questo motivo, non ne sappiamo riconoscere a fondo i benefici, qualora per noi ce ne siano. Ci viene imposto e come tale lo viviamo. Anche il cambio del nome, modificato per renderlo più commerciale, denota lo stile intrapreso.
Non orientato di certo a riconoscere una realtà locale.
Per questo motivo, noi, popolo della Sardegna, abbiamo poco a che vedere con la tipologia turistica di Porto Cervo. Non parla di noi. Non sa cogliere la nostra essenza, non ne richiama le origini, né rispetta le nostre tradizioni.
Non basta arredare dei lussosi resort in “stile sardo”, per farvi sentire parte di questo luogo, non basta mangiare porcetto arrosto per parlare di cucina tipica, non basta assistere ad uno spettacolo di balli tradizionali per affermare di conoscere le nostre tradizioni.
Ecco, questo è l’ esempio meno slow che conosco.
Una storia che racconta di quando il turismo esclude il territorio.
Ma che comunque ci insegna qualcosa. Ci mostra la carta del turismo, che prima di quel momento, forse, non avevamo nemmeno la consapevolezza di poter giocare. Ci fa capire che quando siamo noi stessi, funzioniamo meglio e ci gratifica di più.
Oggi possiamo dire che, ci può essere un abito diverso per il nostro corpo, basta solo trovare la taglia giusta.
Tag:costa smeralda, monti di mola, porto cervo, Sardegna, slow tourism, territorio, turismo