Scomoderemo grandi autori della letteratura mondiale per parlare di cibo, di relazioni tra uomo e territorio e tra l’uomo e il profumo o la vista di un piatto che lo riporta al suo percorso di vita personale. Il ricordo corre subito alla “madeleine” proustiana: un piccolo dolce morbido a forma di conchiglia, da inzuppare nel tè, che esemplifica la complessità delle relazioni tra letteratura e cibo. E non è il solo esempio.
Si pensi a Joyce e al suo Ulisse: «Mr Leopold Bloom mangiava con gran gusto le interiora di animali e di volatili. Gli piaceva la spessa minestra di rigaglie, gozzi piccanti, un cuore ripieno arrosto, fette di fegato impanate e fritte, uova di merluzzo fritte. Più di tutto gli piacevano i rognoni di castrato alla griglia che gli lasciavano nel palato un fine gusto d’urina leggermente aromatica». Meno raffinato del dolce ricordo proustiano, non per questo il gusto joyciano è meno indicativo di quell’intrinseco rapporto sempre vivo tra cibo e territorio, cibo e passato, cibo e storia, cibo e tradizione.
Ma se restringiamo il campo al nostro territorio, come dimenticare “Carrube e Cavalieri” di Raffaele Poidomani e le indimenticabili descrizioni di piatti e pietanze tipiche della cucina modicana?
L’alimentazione è un elemento talmente importante, pervasivo ed evocativo nell’esperienza quotidiana che è pressoché impossibile trovare un’opera letteraria che non abbia una qualche relazione con il cibo. La letteratura può offrire al lettore utili indicazioni per ricostruire abitudini e gusti di una civiltà e in generale la cultura materiale di quella comunità.
Dalla simbiosi tra parola, uomo e cibo, nasce anche la ricerca di chi opera nel campo della gastronomia cercando di percorrere la strada del gusto dal di dentro, recuperando su quella strada le fonti da cui il gusto di quel determinato territorio si evolve.
Nasce così la figura del gastronomo, il quale non si limita a cucinare. Egli è molto di più: è memore di sapori per averli interiorizzati, è propositore di piatti che siano stimolo di ricordo. È interprete del territorio, laddove interpretare significa elaborare ma non stravolgere.
Afferma Peppe Barone (che ha fatto della simbiosi tra cibo e ricordo un’esperienza di vita che propone sempre nell’elaborazione di ogni suo piatto):
“Il periodo dell’anno che va da novembre ad aprile incluso, quel momento che dovrebbe coincidere con la “morte” della natura è al contrario uno dei più fertili e generosi di erbe e di essenze, che poi sono alla base dei piatti più raffinati che la cucina iblea propone, perché sono altissima espressione del nostro territorio. Il cuoco è in fondo un mediatore fra la natura e l’uomo. Tra la natura come produttrice, e perciò madre, e l’uomo come consumatore, e perciò figlio. Il cuoco si limita a riunire, a congiungere nel piatto tutto ciò che già esiste. E suscita emozioni che coinvolgono chi mangia sul piano del gusto, dell’odorato e della vista; ma suscita immediatamente il ricordo e il recupero di emozioni a volte apparentemente dimenticate. Il cuoco non inventa nulla, utilizza ed elabora”.
Recuperare i piatti legati alla tradizione diventa allora una scommessa per chi interpreta il territorio:
“Piatti che si basano per esempio sulla borragine, sugli asparagi selvatici o ancora sulla cicoria, sull’aita e sull’ortica non solo creano un fortissimo legame col territorio di oggi ma rievocano piatti legati alla tradizione e fungono da ponte tra il nostro passato e il nostro presente. Un passato in cui in cucina si recuperava ciò che si trovava in natura e la natura proprio in inverno era più generosa di essenze e piante altamente nutrienti. Ecco allora la ragione della moderna esigenza di proporre piatti così detti tradizionali. Laddove però tradizione non significa solo recupero di piatti elaborati. Al contrario significa proporre pietanze povere, laddove povertà non è miseria ma una raffinata operazione che mira a togliere dal piatto le sovrapposizioni di gusto, per favorire l’essenza e la fragranza di ciascun elemento”.
L’atto del cucinare allora non è solo mettere insieme alimenti allo scopo di nutrimento. O meglio, il nutrimento che si ricava dal mettere insieme alimenti legati alla stagione, al territorio, alla tradizione è dunque una operazione più profonda che coinvolge l’essere in tutta la sua totalità: dal ricordo, il suo passato, al gusto immediato: il suo presente.
Sorge a questo punto un quesito: ripensando al digiunatore kafkiano, sarebbe interessante capire come reagirebbe di fronte ad un piatto della tradizione: “Sono costretto a digiunare – affermava il digiunatore – perché io non ho mai potuto trovare il cibo che mi piacesse. Se lo avessi trovato, credilo, non avrei fatto tante storie e mi sarei rimpinzato come te e tutti gli altri”. Forse, però, se mangiare vuol dire non solo sfamare il corpo ma anche mettere a tacere la fame che abbiamo di ritorno, di famiglia, di recupero, quel digiunatore potrebbe, mettendosi a sedere, gustare un buon piatto di uzenè (tipico della cucina ceca) e magari riuscire a intravedere una figura amica che dall’angolo del suo passato gli ammicca.
Lo Chef Barone consiglia: PETTO DI GALLO AL MIRTO IN CASSERUOLA (ricetta x 6 persone)
Ingredienti:
un petto intero di gallo ruspante con la sua pelle, di kg 1,5;
gr 300 di carote novelle;
gr 100 di cipolle bianche;
gr 100 di sedano (solo le coste);
4 foglie di alloro;
Un rametto di rosmarino;
mirto (comprese le foglie e i frutti) q.b.;
olio extravergine, sale e pepe q.b.
Esecuzione:
prendere una casseruola possibilmente in ghisa, atta a contenere il petto. Farla scaldare e ungere il fondo con poco olio. Fare colorire il petto dalla parte della pelle, operazione che richiederà alcuni minuti. Quindi girarlo, facendolo tostare leggermente, toglierlo, aggiungere le verdure lavate e tagliate a cubetti grandi e tostarle. Adagiare il petto sulle verdure, mettendo il lato della pelle in alto, salare e pepare, quindi ricoprire con le foglie e bacche di mirto leggermente pestate. Portare a cottura a fiamma bassa per almeno un ora. Portare in tavola avendo la cura di scoprirlo prima di servirlo, così da inondare i nostri commensali con il suo profumo avvolgente.
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