La moda italiana è “tossica” e sembra non voler cambiare: l’accusa di Greenpeace, diretta alla Settimana della moda di Milano, colpisce i più noti marchi italiani, rei di aver ignorato le richieste dell’associazione. Greenpeace, infatti, con la campagna The Fashion Duel, aveva posto una sfida a 25 marchi italiani, per eliminare il ricorso a sostanze tossiche nella lavorazione degli abiti, le attività che provocano deforestazione, diminuire l’uso della pelle e del packaging. Fra tutti, l’unico che ha accettato e risposto positivamente alla sfida è il Valentino Fashion Group.
A far orecchie da mercante sono in molti: la gran parte delle firme che sfila in questi giorni a Milano Moda Donna, prestigioso evento organizzato dalla Camera Nazionale della Moda Italiana a cui partecipano migliaia di operatori del settore, ignora il problema dell’impatto delle proprie attività sul pianeta.
“Dietro al glamour e alla bellezza che vedremo sfilare nei prossimi giorni in passerella c’è un mondo che l’industria della moda ci vuole nascondere -ha spiegato Chiara Campione, project leader della campagna- È un mondo pieno di materie prime pericolose, che sta lentamente contaminando i nostri fiumi e distruggendo gli ultimi polmoni del pianeta”
The Fashion Duel. Per questo motivo, Greenpeace ha organizzato la campagna The Fashion Duel: un “guanto di sfida” lanciato a case italiane e francesi, per eliminare i fattori di inquinamento dalle proprie attività. Nel video di lancio, Valeria Golino invita le maggiori case di alta moda a “ripulirsi”.
La campagna è accompagnata da un questionario con 25 domande su tre tematiche centrali: in particolare, si interrogano le case di moda sulle attività intraprese rispetto alle politiche per gli acquisti in pelle, sulla carta e cartone per il packaging, sull’uso di sostanze tossiche nella produzione tessile, sulle azioni che possono provocare deforestazione e inquinamento delle risorse idriche.
La risposta delle grandi firme. La moda italiana, anziché cogliere l’occasione, ha deciso di ignorare il problema e continuare nelle stesse attività, mantenendo saldi gli obiettivi di profitto e successo ad ogni costo: umani, ambientali e sociali. Solo il Valentino Fashion Group ha deciso di intraprendere azioni positive in tutti gli ambiti indicati dall’associazione, visualizzabili nella pagina con la classifica live, e viene perciò lodato da Greenpeace e dal mondo dell’ambientalismo in genere.
I meno bacchettati sono Giorgio Armani e Dior: entrambe le case hanno risposto a Greenpeace e si stanno impegnando in politiche alternative per l’uso della carta e della pelle. Malgrado questo, Armani e Dior ignorano ancora il richiamo al taglio delle sostanze tossiche nella produzione tessile.
Seguono Gucci e Louis Vuitton: il primo si impegna da tempo su carta e pelle e dal 2009 sostiene “la moratoria sull’espansione dell’allevamento bovino in Amazzonia”. Anche Louis Vuitton, dal canto suo, “dichiara” di aver intrapreso politiche di riduzione dell’impatto: entrambe le firme però nicchiano sul tema delle sostanze tossiche.
Ermenegildo Zenia, Versace e Salvatore Ferragamo totalizzano solo un punto a loro favore: buone le politiche sul packaging, ma niente su pelle e sostanze tossiche. Roberto Cavalli, si legge, “non ha fornito risposte precise e non ha preso nessun impegno” per il rispetto del pianeta: “nessuna certezza, per i consumatori, sulle politiche dell’azienda in merito a inquinamento delle risorse idriche e deforestazione”.
Infine, la parte della classifica più deplorevole: quelle firme che hanno completamente ignorato l’iniziativa di Greenpeace. Fra queste case ci sono Alberta Ferretti, Chanel, Dolce & Gabbana, Hermes, Prada e Trussardi.
“Con The Fashion Duel abbiamo voluto sfidare l’alta moda sul campo di battaglia dello stile, dell’etica e del rispetto della vera bellezza: le ultime foreste e le risorse idriche globali –ha concluso Chiara Campione- Ad eccezione di Valentino Fashion Group, che in questi mesi ha intrapreso le prime azioni pubbliche e concrete per eliminare le sostanze tossiche e la deforestazione dai nostri vestiti, il settore della moda ha fallito.”
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