Il pane fatto in casa: ieri una necessità inderogabile per le famiglie, oggi una specialità locale declinata in molte versioni, in particolare al Sud Italia. Quella che il Daily Slow vi racconta oggi, è la tradizione dei Nebrodi, in Sicilia: una catena montuosa protetta che si affaccia sul Mar Tirreno ed è delimitata a meridione dall’Etna, in particolare dal fiume Alcantara e dall’alto corso del Simeto.
Il Parco regionale dei Nebrodi, istituito il 4 agosto 1993, è la più grande area naturale protetta della Sicilia: con i suoi 86.000 ettari di superficie, è una delle zone più ricche dal punto di vista di vegetazione e fauna, anche grazie alla sua estensione e all’altezza di alcune vette rispetto al livello del mare. I 23 comuni del Parco dei Nebrodi, divisi fra le provincie di Messina, Catania ed Enna, offrono una produzione enogastronomica molto varia, di cui ben noti sono i prodotti caseari, come ricotta e pecorino. Specialità della millenaria tradizione contadina dei Nebrodi sono le produzioni d’olio d’oliva, funghi, miele, nocciole, pistacchio, frutti di bosco e il suino nero, razza autoctona italiana di maiale presente nei territori di San Fratello e Cesarò, in provincia di Messina. Nelle numerose “baracche” che si trovano sulle vie del Parco si possono gustare le specialità tipiche di una cucina semplice e antica, insieme alla produzione vinicola locale e all’immancabile “pane di casa”.
Il Pane. Insieme alla pasta, il pane di casa è una componente essenziale della dieta dei Nebrodi. Alimento consumato più in abbondanza nel Meridione da sempre, il pane non è solo usato come accompagnamento ai contorni: spesso , una volta condito, costituisce un piatto a sé. E’ il famoso Pani Cunzatu, un pane tagliato in senso orizzontale, che contiene vari tipi di alimenti, olio, sale e origano in primis, e poi acciughe, formaggi, pomodori secchi e altre verdure. Negli ultimi anni si assiste a un “revival” del pani cunzatu, che viene spesso offerto in nei luoghi di ristorazioni meno tipici, in versioni più moderne.
Le ricette del pane fatto in casa variano da paese a paese, ma in tutte sono essenziali alcuni ingredienti: farina di grano duro, in parte mischiata con la farina di grano tenero, sale, acqua e u ripigghiaturi, ovvero il lievito madre. Ciò che più differenzia questo tipo di pane dal pane di produzione industriale, infatti, è proprio l’uso di questo tipo di lievito e la cottura nel forno a legna, oltre alla qualità indubbia dei suoi ingredienti base. Il pane veniva fatto in un giorno lavorativo e doveva durare per settimane: l’impasto che vi proprone il Daily è per 10-12 kg di pane, ma le massaie dei Nebrodi potevano anche raddoppiare le dosi. Per fare il pane ci vuole forza e passione e, non meno importante, la capacità di seguire regole e pratiche tramandate negli anni oralmente.
Il lievito madre è conosciuto sotto molti nomi: lievito naturale, lievito acido, pasta acida, lievito crescente. In questa zona della Sicilia è detto ripigghiaturi o u crescenti di la bedda matri: è un impasto di farina e acqua, acidificato da un complesso di lieviti e batteri lattici che sono in grado di avviare la fermentazione. Rispetto al lievito di birra, usato nelle produzioni industriali, contiene diversi tipi di batteri lattici del genere Lactobacillus: questi producono acidi organici e consentono una maggiore digeribilità e conservabilità del pane.
Una volta ottenuti gli ingredienti base, gli altri elementi della ricetta variano da zona a zona, anche in funzione del tipo di legna da ardere presenti nelle varie aree dei monti Nebrodi. Le varietà migliori sono quelli ad alto potere calorifero: faggi in particolare, detti ligna di curma, ma anche ulivi, limoni, aranci.Anche la strumentazione è fondamentale perché tutte le operazioni – dall’impatto alla cottura al momento di sfornare il pane – siano eseguite perfettamente.
La maidda, in italiano madia, è un contenitore ricavato da un unico blocco di legno, di forma rettangolare, con i bordi rialzati, in cui viene impastato il pane;
La chiuderna, ovvero la “porta” in ferro che deve aderire perfettamente alla bocca del forno per chiuderlo
La Scupa du furnu, una scopa fatta di una fibra di disa (Ampelodesmos mauritanicus), conosciuta anche come saracchio, pianta perenne della famiglia delle Graminacee. Le fibre resistenti di questa pianta erano raccolte dagli uomini in campagna e poi intrecciati dalle donne: la scopa di disa bagnata servirà a “scopare” il forno caldo, per equilibrarne la temperatura
Rastreddu, zinnofulu e palittuni, cioè strumenti per girare legna e brace e per inserire il pane nel forno
Ingredienti per 12 kg di pane (indicativamente):
300 g di lievito madre, più 800-900 g di farina per il lievito da usare
7-8 kg di farina, di cui uno di farina bianca e 6-7 kg resto di semola (proporzioni che variano in base al gusto: più farina di semola si mette più il pane verrà scuro e dal sapore intenso)
acqua tiepida (non calda né bollente)
30 g di sale (anche qui dosi variabili in base ai gusti)
Operazioni preliminari: il lievito madre
U ripigghiaturi, o lievito madre, è chiamato così proprio perché si deve “riprendere” il giorno precedente all’impasto. Un lievito madre del peso tipo di 500 g, ad esempio, conservato in freezer, si impasterà con una quantità di farina dai 700 ai 900 grammi e con acqua tiepida, fino a formare una palla omogenea. La temperatura dell’acqua è fondamentale: non calda, ma tiepida, per evitare che il lievito agisca immediatamente. Una volta fatta la palla di lievito da usare si avvolge in una coperta e si lascia riposare per 24 ore, facendo attenzione alla temperatura dell’ambiente circostante: un ambiente tiepido-caldo, ma comunque ventilato. Impastare o scanare: Disporre la farina mischiata (semola e 00) a fontana, contemporaneamente riscaldare un litro d’acqua in una pentola (che sarà man mano integrata). Anche in questo caso l’acqua deve essere appena tiepida. Creare un buco al centro della farina e mettervi l’acqua tiepida
Togliere lo strato superiore al lievito madre e metterlo al centro della farina e scioglierlo (squagghiari), facendo attenzione a sciogliere tutti i grumi. Una volta sciolto incorporare man mano la farina ai lati, continuando a versare l’acqua quando la palla di pasta si addensa. Procedere in questo modo finché una parte della farina ai lati sarà assorbita e la palla sarà diventata più compatta.
Adesso è il momento di scanare, vero movimento che determina la qualità del pane: impastare con i pugni, con gran vigore, rigirando la pasta agli angoli, man mano che diventa più liscia. Procedere incorporando la farina ai lati fino alla fine, insieme all’acqua tiepida.
Una volta che la farina ai lati è stata assorbita, mettere un mestolo d’acqua tiepida in un angolo della maidda, sollevando la pasta. Nell’acqua sciogliere una presa di sale dai 30 grammi messi sul lato della maidda. Con l’acqua e sale, sciogliere i resti di farina appiccicati sul fondo e sull’angolo scelto: poi riadagiare la pasta sopra e continuare a scanare. Procedere in questo modo per ogni angolo della maidda, finchè tutto il sale sarà terminato e tutta la pasta sul fondo raschiata: la bravura delle massaie dei Nebrodi stava, infatti, anche nella capacità di lasciare la maidda “pulita”.
Una volta terminato il sale, cospargere la palla di pane di farina, da ogni lato: da questa si dovranno ora staccare delle pallette per formare i vari tipi di pane. In questo caso ne sono stati fatti di due tipi: uno con la classica forma rotonda e quello allungata, detto minnuzzu.
Si stacca quindi una palletta e la si lavora sul prastile, il bordo della maidda. Lavorarla con due dita, in modo leggero, rigirando i bordi su se stessi e cospargendola eventualmente di farina per non farla attaccare. Una volta diventata elastica, prenderla fra le mani, passandola di mano in mano per farla allargare e disporre la palla allargata su un letto, che è stato coperto adeguatamente con un lenzuolo.
Il letto del pane è molto importante: deve avere le coperte necessarie per consentire la lievitazione dei pani che va, all’incirca, dalle 5 ore nei periodi caldi alle 8 dei periodi freddi. Se le coperte sono poche e i tempi di lievitazione si allungano di molto il pane potrebbe risultare acido.
Capire se il pane è lievitato. Le massaie lo capivano guardandolo: “quannu u pani scusi”, cioè quando inizia a spaccarsi, è da infornare.
Accendere il fuoco.
E’ importante, in questo caso, capire quando accendere il fuoco: il pane non deve attendere troppo dal momento in cui inizia a spaccarsi in superficie. I zucchiceddi, le legna più grosse, solitamente vengono messi al centro, facendo ben attenzione a non levare aria al fuoco: questo fuoco sarà spostato man mano, partendo dal centro del forno in senso orario, in modo da passare su tutta la superficie, attendendo 10 minuti circa per ogni spicchio coperto. Il motivo è la “cottura” dei mattoni: ogni parte del forno deve diventare bianca.
La cottura dei mattoni determina i tempi di cottura del pane, per cui è necessario che ogni parte del forno sia cotta allo stesso modo e che tutti i mattoni siano bianchi: una volta terminato il giro del forno, a volte si ripassano le legna ardenti sulla prima parte, che potrebbe essersi raffreddata. Naturalmente, è l’occhio che decide: tradizionalmente, l’unico modo per misurare la temperatura nei forni era, appunto, il colore dei mattoni.
Una volta che tutto il forno è bianco, compreso il tetto, si leva la brace in eccesso, quella che sta per diventare cenere e si tiene nel forno solo quella più viva. A questo punto la brace viene tirata avanti e posizionata sulla bocca del forno. Ma come capire se la temperatura è davvero quella ideale per infornare il pane? Anche in questo caso sono i sensi a venirci in aiuto, in questo caso l’udito. L’operazione di scopare il forno, infatti, permette di capire quando i mattoni sono alla temperatura giusta, abbassandola man mano, grazie alla scopa bagnata.
Si intinge quindi la scopa nell’acqua, la si batte ad un albero per evitare le gocce eccessive e si inserisce nel forno, oltre la brace: mentre si passa sul fondo sentiremo “friggere” la base del forno, a causa del contrasto fra temperatura e acqua. Si scopa il forno finchè il forno non “frigge” più (dal dialetto, friiri). E’ importante farlo un numero di volte adeguato: il suono si deve affievolire molto, ma non bisogna certo bagnare eccessivamente la superficie. Nel caso in cui la superficie si bagnasse troppo, infatti, bisognerebbe ripetere le operazioni di cottura dei mattoni.
Infornare.
Scoprire il pane: prenderne delicatamente uno e posizionarlo sulla pala, già cosparsa di farina. L’operazione di infornare è particolarmente delicata: si devono disporre i pani in cerchio, facendo attenzione alla brace che sta sul bordo. Una volta disposti tutti i pani a cerchio, spingere la brace appena dentro il forno, senza farla entrare in contatto con i pani e chiudere, con la chiuderna.
Una volta chiuso il pane diventerà man mano incandescente: quando avrà raggiunto il colore ideale si potrà togliere la brace e continuare la cottura senza nessuna fonte di calore, se non quella dei mattoni cotti. Il limite è a occhio: le massaie dicono che “c’avi a calari a rosa”, ovvero deve diventare di un colore rosa intenso, quasi rosso. Anche qui i tempi sono opinabili: fra i 10 e i 20 minuti in genere, ma naturalmente dipende dal tipo di forno, dalle sue dimensioni e dalle operazioni precedenti.
Quando tutto il pane ha assunto quella colorazione si toglie la brace, riponendola nel porta brace: un secchio di metallo dotato di chiusura ermetica che permetteva che la brace fosse riutilizzata per cucinare o per riscaldarsi. Il pane a questo punto cuocerà con il calore dei mattoni, per circa un’ora, un’ora e mezza: anche in questo caso, è determinante il colore del pane.
Una volta che ogni pane è cotto da ogni lato (è possibile che una parte del pane cuocia prima, a causa della disparità di temperatura fra una parte e l’altra del forno), sfornarli: questi non andranno messi in orizzontale, bensì in obliquo, appoggiati a una parete, in modo da evitare che si dilatino a causa dell’eccessivo sbalzo di calore e sformino. Una volta sfornato, il pane veniva conservato nelle tovaglie di stoffa, che riparano ma permettono un passaggio dell’aria, in modo da evitare l’umidità e perciò la muffa.
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