Prima che il mare tra le terre dimentichi del tutto quella parlata che sa di italiano, in Sicilia – nell’ultimo avamposto – si apre una vallata che nei colori consacra del tutto la sua unicità. È il territorio di Ragusa, con quella sua fisionomia che la rende isola nell’isola.
Tra le storie che può raccontare, c’è anche quella dei “pirriatura” e dei “picialuori”. Mestieri dimenticati, ormai, ma che hanno segnato profondamente la storia della provincia, cantata anche nei versi del poeta ragusano Vann’Antò:
“Scuru e silenziu. Ma lu pirriaturi
happi a noia lu liettu (cchè è malatu?)
ama lu friscu e anticipa l’arburi”
In un asse che va da Scicli a Modica, Ragusa e Vizzini, la “pietra pece” conosciuta nel mondo determina una qualità del tutto specifica del territorio. Pirriatura e picialuori lavoratori di pietre, protagonisti di un periodo storico in cui l’estrazione della pietra pece era un’attività importantissima per la provincia. Era l’inizio del secolo scorso quando, in alcuni angoli di questo territorio, l’uomo incise la storia faticosa dei lavoratori della “pietra pece”.
Certamente ripercorrere la via dei picialuori vuol dire confrontarsi con una condizione di vita e di lavoro durissimi. Ancora oggi la pietra viene estratta e lavorata a Ragusa. Ma una delle miniere più interessanti e meno conosciute è quella che si trova al cozzo Streppenosa, sul lato sinistro del fiume Irminio, alle porte di Modica. La miniera fu data in concessione a due ditte tedesche: la Heinrich Kopp e la Weiss und Freitag, che a fine ‘800 fecero di quel luogo un vero e proprio centro industriale.
A mano a mano che la strada sterrata declina verso l’imbocco della miniera, nascosto da sterpi e rovi, ci si addentra in un tunnel alto una decina di metri. La luminosità accompagna l’occhio solo fin quando il tunnel curva. Lì il buio ti avvolge e il silenzio prende tutto lo spazio. Buio, afrore e silenzio. Sono le immediate emozioni che avvolgono chi entra. La via seguita non è agevole e il pensiero va a coloro che l’hanno percorsa per anni su carretti trainati dal mulo e a piedi, cercando di non scivolare a causa del fango.
Il cuore della miniera è però più all’interno, tra fango e pietre abbandonate: lungo il sentiero ci si addentra per circa mille metri nelle viscere scavate dall’uomo nella terra. Lì dove il bitume trasuda copioso e dove l’acqua gocciola, formando concrezioni preziose nelle fattezze e nelle sfumature ricche di colori, ti confronti col pensiero metropolitano abituato ai rumori del caos cittadino e parli ad alta voce quasi per confermare che ci senti ancora.
In alcune miniere, come a Cortolillo e a Tabuna – alla periferia di Ragusa -, il buio lentamente lascia il posto al chiarore, che penetra tra gli anfratti della pietra. Da bocche laterali entra la luce che si diffonde discreta all’interno della miniera. In altri luoghi – come a Streppenosa – il buio è pesto: solo una leggera corrente d’aria, a volte, indica la via d’uscita o la vicinanza del pozzo di luce e d’aria. Quell’odore pungente, a mano a mano che si resta in quel posto, diventa sempre meno invadente e a un certo punto non lo avverti più. E il silenzio diventa luogo del ritorno a se stessi. D’un tratto, si sente un gocciolio discreto sempre più delicato e costante.
Secondo la testimonianza di chi ha lavorato nelle cave, quello era un lavoro duro: “si arrivava a lavorare anche in ginocchio. Tenevamo il piccone con le mani e con colpi cadenzati facevamo la trinca (taglio profondo, n.d.a.). Poi, per staccare il blocco trincato, usavamo le cugnere. Ci aiutavamo con la mazza e la leva”, racconta un signore dalle rughe profonde, che nella cava lavorava già nel 1957.
“Io ero laggiù e quando scoppiava la dinamite qui tremava tutto”, continua Don Pippinu Occhipinti, in un misto di emozione e triste nostalgia. Ritornano laggiù le parole di quell’uomo incontrato per caso e le risenti quando ti imbatti nei segni lasciati dai candelotti di dinamite nella roccia.
A qualche chilometro dalla miniera di Streppenosa, c’è la cava di Castelluccio: la “pirrera”. Dalla pirrera, i pirriatura estraevano il calcare tenero, facilmente lavorabile e friabile: la cosiddetta “petra franca”. Nelle cave a cielo aperto, il lavoro era altrettanto duro e l’attività estrattiva era di tipo culminale. Si iniziava dalla parte sommitale dell’area di cava e si proseguiva secondo ribassi, seguendo gli “asciuni”, cioè gli strati della roccia.
Alcune cave si trovavano in una zona oggi del tutto urbanizzata: tra la via Carducci, la via Archimede, la chiesa della Sacra Famiglia, la Villa Pax e la via G.Di Vittorio, a Ragusa. Altre sono in luoghi reconditi e lontani dal centro cittadino, come appunto quella di Castelluccio.
L’inaspettato equilibrio tra le fredde geografie delle miniere incise dal duro lavoro dell’uomo e le morfologie naturali, nate dai processi carsici attivati dalle acque, hanno fatto delle miniere un luogo prezioso che andrebbe in primo luogo tutelato e poi valorizzato.
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