Un pomeriggio di quaresima, Maria, Gina, Zudda, Pippina e la signora Mariuccia, armate dei loro arnesi di lavoro, si ritrovano davanti ad un forno a legna. Il lavoro richiede il massimo della manualità e della dedizione. Come quelle di uno scalpellino d’altri tempi o di un fabbro che forgia il ferro caldo, le mani sapienti delle donne, riunite per la “devozione di Pasqua”, si alleano per intarsiare, incidere e forgiare i viscotta ri saìmi, tra i biscotti di Pasqua, i più caratteristici.
Alla semplicità del composto, si contrappone la grande varietà delle forme. Accade così che da un rotolino di pasta, impastata e lavorata a lungo con farina bianca, saìmi [strutto, n.d.r.], zucchero, cruscenti [èasta madre, n.d.r.] e cannella, vengono fuori le più eleganti forge, memoria di volute e decorazioni di antica fattezza greca – come le foglie d’acanto – o barocca.
Ognuna col proprio arnese di lavoro, un piccolo coltellino che viene usato solo per i biscotti di saìmi. Lo strutto, conosciuto presso gli spagnoli col nome di saim – nome poi reso in siciliano con saìmi -, fu esportato in tutti i centri a dominazione spagnola. Era già prodotto a Palermo, dove esisteva un mattatoio di enormi dimensioni.
Così, lentamente e senza interruzione, decorazioni sfarzose, panciute volute, riccioli e capitelli finiscono in forno a 200 gradi per pochi minuti. Ne vengono fuori biscotti dal sapore indimenticabile, certamente conservato nella memoria del gusto di chi, da bambino, ha avuto una nonna che a Pasqua, tra una funzione e l’altra, li ha fatti per la gioia della famiglia.
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