È quasi San Giuseppe. Come ogni anno, è quasi san Giuseppe. Immagino le faticose giornate dei gruppi al lavoro per completare i manti che sfileranno a Scicli. Lo scorso anno ho avuto il privilegio di assistere alle battute finali della costruzione di questi manti per due gruppi che si sono contesi il primo premio alla cavalcata di San Giuseppe a Scicli: gli Alfieri e quello di San Giuseppe, scuderia Ficili.
Il gruppo degli Alfieri, fondato nel 2006, è composto da circa venti persone e Angelo ne è il fondatore. A descrivermi il manto della scuderia è stato Carlo Bonincontro: “Trent’anni fa il manto era di juta e il fiore veniva cucito in mazzetti con ago e spago. Il fiore utilizzato era la violaciocca spontanea. Il manto però era troppo pesante e il cavallo era sottoposto a uno stress eccessivo. Oggi, su uno strato di schiuma ureica viene appoggiata la spugna. sulla quale si applicano i fiori seguendo il disegno realizzato su un telo bianco. Le bardature ultimate peseranno circa 150 chili: nulla per i nostri cavalli!”
Il tema del manto, come sempre, è la fuga in Egitto. La festa è stata inserita nel Registro delle Eredità Immateriali di Interesse Locale e per questo si attiene a rigide regole, che ogni anno tutti i gruppi che partecipano seguono nei minimi dettagli”. Si tratta di una festa di devozione nei riguardi del Patriarca da parte dei lavoratori.
Nel garage degli Alfieri sono custoditi gli arnesi del lavoro: pinze, forbici, spilli, pistola per silicone, retina di acciaio, teli di spugna, matite e poi delle strisce di plastica rosse che riconosco sul manto: si tratta di un materiale leggero, che viene incollato sulle tracce del progetto disegnato sul telo bianco, in modo da creare un percorso visivo e anche fisico dove incollare la violacciocca o, come la chiamano loro, u balicu. Insieme al fiore, anche la spatulidda selvatica, che servirà a rifinire la bardatura. Ho anche visto il loro cavallo: mi ci ha portato Orlando. Arrivati davanti a un cancello automatico che si apre per incanto, ci accoglie Luisa con un bel sorriso. Mi accompagna alla stalla e spunta Christie, un Percheron magnifico: “noi però lo chiamiamo Peppe”.
Il gruppo di San Giuseppe. L’uscio del magazzino spalancato sulla campagna di Scicli svela un colpo di scena: certa di trovare anche qui uomini intenti alla rifinitura dell’armatura, con mia grande sorpresa trovo una batteria di donne all’opera. Chi incolla, chi cuce, chi ritaglia. La più giovane cavalca un destriero immaginario (seguita da un ciuffo di spatulidda, come fosse la coda del suo magnifico cavallo) con tale foga che ci spostiamo per farla passare.
Federica, Giulia, Cettina, Marika, Jessica, Liù, Natalia. Martina è l’ideatrice e la disegnatrice del progetto, che già si intravede sull’enorme manto. La più giovane ha otto anni, la più anziana neanche ventotto. Tra le risate e l’allegria generale mi torna una domanda che ritengo fondamentale per capire lo spirito della festa: chi è san Giuseppe per costoro? Mi aspetto di sentire una risposta composita del genere: san Giuseppe è il primo dei padri putativi, tra tutti il più premuroso, lo sposo amorevole, per questo protettore, tra gli altri, degli orfani e delle ragazze da marito. Protettore di un gran numero di paesini della Sicilia. San Giuseppe, lo so, è tutto questo e molto altro.
“Iddu è u Patriarca”, mi rispondono semplicemente. Ma in questa secca risposta c’è, in fondo, tutto il significato di questa figura. E per quanto riguarda Scicli, in particolare è valido ciò che Salomone Marino affermava nel suo saggio “Costumi e Usanze dei Contadini in Sicilia”: “San Giuseppe vale più del Padre Eterno, di Cristo e della Madonna presi insieme”.
In quasi tutte le famiglie dell’area iblea c’è sempre un Giuseppe con le sue varianti. Chi non conosce un Pippinu, Piddu, Peppi, Pinu, Pè, Peppuccio, Giusè? Lo stesso accade per i nomi femminili: Pippina, Piada, Peppa, Fina, Giusy. Ma la vera festa è a Scicli. Intere famiglie si preparano all’evento durante tutto l’anno e mettono in scena, con fiori di bàlucu in bardature favolose su cavalli imponenti, la fuga in Egitto.
Gli abitanti dei quartieri tutt’attorno alla piazza principale invitano i passanti a unirsi ad arrostire e mangiare al caldo del loro falò. In tutti i paesini della provincia, però, ricorre una pratica che viene chiamata in vari modi ma che ovunque prevede un fuoco acceso: a vamparigghia a Scicli, u jala fuocu a Pozzallo, a vampa ri San Giuseppe a Modica e Frigintini. Il legame tra San Giuseppe e il fuoco è dunque fortissimo. Il rito legato al fuoco si compie di sera e segna il passaggio dall’inverno alla primaver, quasi in coincidenza con il giorno dell’equinozio di primavera.
Il fuoco indica anche il passaggio da una condizione di peccato a una condizione di purezza, dal momento che è in grado di allontanare le forze del male. Ricordiamo però anche una leggenda riportata dal Pitrè: San Giuseppe e il suo devoto. Secondo questa leggenda, scoppiò una lite tra San Giuseppe e il Signore, per liberare dal fuoco eterno un devoto del Patriarca. Alla minaccia avanzata da San Giuseppe che lui e la sua sposa avrebbero lasciato il Paradiso, il Signore cedette. La leggenda ne richiama un’altra, diffusa nel Medioevo, che parla della lite tra la Misericordia e la Giustizia Divina. San Giuseppe impersona la Misericordia, che comunque deve sottostare alla Giustizia Divina. Per questa ragione, egli è anche l’avvocato delle cause impossibili.
Ma quali sono i cibi caratteristici legati alla devozione di San Giuseppe? Uno dei dolci tipici di San Giuseppe era la pagnuccata, che – ricordiamo – veniva preparata anche a Carnevale. “Ma il vero dolce di San Giuseppe – testimonia Franco Ruta, della dolceria Bonajuto di Modica – sono le crispelle di riso con il miele di timo, tipiche degli Iblei. La caratteristica della crispella fatta da noi è la frittura nella sugna, come le scorze dei cannoli”.
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