La memoria collettiva di anziani, uomini e donne mantiene vivo il ricordo di un piatto fondamentale nella dieta di intere generazioni: il cuturru. Ho incontrato lo studioso Pierantonio Calabrese per farmi spiegare meglio questo alimento:
“Con questo termine, di matrice fortemente sicula, si ricorda una pietanza che, una volta, rappresentava certamente un piatto unico e completo. Farina integrale di grano duro: l’unico ingrediente; veniva macinata grossolanamente su pietra di lava. La sua cottura ricorda la polenta ma poi veniva arricchita dalla ricotta. Insomma, un matrimonio felice quello che vede u cuturru e la ricotta, in quanto rappresenta la sintesi dei prodotti dell’agricoltura di un tempo: cerealicola e zootecnica”.
Come si preparava?
“Per lavorare il grano ci si serviva semplicemente della pietra. Ancora oggi, girovagando per le colline degli Iblei. non è difficile imbattersi in alcune pietre lavorate rozzamente dall’uomo. Spesso sono utilizzate come tessere dei muri a secco. Si tratta di macine rudimentali, pietre la cui base è costituita da una pianta piatta in roccia lavica alveolare, in modo da consentire l’aggancio del chicco di grano. La frantumazione è ottenuta con un’altra pietra, la cui grandezza permette di essere spostata con la forza di una mano. Lo strofinamento delle due pietre darà vita al composto, che poi verrà cotto in una pentola”.
Si tratta, insomma, di una sorta di mulino ante litteram:
“Per l’appunto! Un semplice apparato molitorio, arcaico, a strofinio, modificato nel tempo con trovate geniali che oggi riconosciamo nei mulini ad acqua”.
Il cuturru era una pietanza povera o era un piatto per ricchi?
“La pietanza, ben conosciuta dai nostri contadini, è tornata alla ribalta durante l’ultimo conflitto mondiale, quando le ristrettezze causate dalla guerra portarono al razionamento della farina. In questo caso, dunque, era un piatto per tutti e di tutti. Le nostre nonne ricordarono presto di avere quell’arnese in casa e la vecchia pietra molitoria fu rimessa all’opera, per macinare in casa quel poco grano che si poteva procurare in campagna.”
Parliamo della cottura:
“Quando si procede alla cottura del cuturru, se il frumento è di recente produzione, mantiene il profumo di fresco e la pietanza risulta molto gradevole. A fine cottura, quando c’era, si aggiungeva la ricotta. Quest’antichissima ricetta ha il pregio di amalgamare sapori sconosciuti al palato dei più. La preparazione del cuturru è molto semplice, anche se richiede un po’ di cura nell’esecuzione: la farina di grano integrale, che può essere reperita facilmente, corrisponde a quella che derivava dalla molitura integrale dei nostri frumenti, appartenenti a coltivazioni quasi scomparse. A seconda del grado di cottura che si vuole realizzare, si utilizzano da 150 a 200 grammi di farina integrale per litro di acqua. La miscela avviene a freddo e, come si fa coi budini, si porta il tutto ad ebollizione controllata. È necessario cha la pentola abbia un fondo facilmente raschiabile con una paletta di legno, per evitare che la massa si attacchi e bruci. Quando la corposità della massa manifesta una collosità accettabile, si può servire con in condimenti preferiti: ricotta o stufato di maiale con carne a pezzettini e ricotta. Si tratta di un piatto unico che possiede sia amidi che proteine, la cui digeribilità è favorita dalla fibra della crusca del cruschello e del tritello”.
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